venerdì 10 settembre 2021
L’importanza di aiutare una realistica resistenza dall’interno e una classe dirigente che si forma in esilio
Saper tenere uniti fuoriusciti e ribelli per il futuro della democrazia
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L’importanza di aiutare una realistica resistenza dall’interno e una classe dirigente che si forma in esilio Caro direttore, il «ritiro da Kabul» e la nascita del nuovo regime taleban, una vicenda della quale ancora ignoriamo purtroppo i drammatici esiti conclusivi, non può e non deve significare l’abbandono di quel popolo nelle mani dei fondamentalisti islamici. Oltre ad accertare le ragioni effettive del disastroso bilancio di alcuni lustri di presenza occidentale in Afghanistan è essenziale riflettere su come sarà possibile iniziare a ricostruire il progetto di rinascita democratica di quel Paese che non potrà che partire da una resistenza civile interna, in tutte le forme realisticamente possibili, al duro regime talebano.

La prima risposta, per coloro che riusciranno a evadere dal 'carcere afgano', è quella dell’accoglienza. Ma sarebbe sbagliato pensare e agire per trasformare l’accoglienza in avvio di un processo teso ad assimilare e integrare queste persone nella società italiana ed europea o in quella americana senza mantenere i legami all’interno di queste 'comunità della diaspora' con la patria d’origine. Se si vuole guardare al futuro, l’accoglienza di chi fugge oggi da Kabul non può essere solo assistenza e integrazione, ma deve far sì che questi esuli si preparino anche, in tempi che non saranno probabilmente brevi, a costituire una nuova classe dirigente che un giorno tornerà per ricostruire l’Afghanistan.

Il mantenimento dell’identità nazionale e culturale deve avvenire a opera sia della resistenza interna (che sta dando segni di vita e va aiutata concretamente) sia della comunità afghana che è riparata all’estero e non vuole recidere i legami con la terra d’origine. Nel secolo scorso non sono mancati esempi di questo tipo, anche se con modalità diverse. Pensiamo in primo luogo all’emigrazione antifascista dopo il 1926, principalmente in Francia ma anche in Gran Bretagna e negli Usa. Una parte importante della classe dirigente post bellica si riorganizzò in lunghi anni di lavoro e di attività politica nelle società democratiche che l’aveva generosamente ospitata. Nel 1967 il colpo di stato dei colonnelli greci e nel 1973 quello di Pinochet in Cile posero anche in Italia il problema degli esuli da ospitare e da aiutare nella loro lotta di riconquista della libertà. Certo, si trattava principalmente di militanti politici, funzionari, intellettuali considerati dai militari nemici irriducibili da eliminare.

Nel caso afghano siamo invece di fronte prevalentemente a persone comuni, che hanno avuto la colpa di collaborare con gli occidentali e con il governo ufficiale e soprattutto a giovani donne, semplici lavoratrici, professioniste o studentesse che rischiano di perdere, se non la vita, ogni diritto nel nuovo Stato islamico. Naturalmente sarebbe impossibile governare un esodo di massa che oggi sarebbe per altro impedito dai nuovi padroni di Kabul, né si possono sottovalutare i rischi di infiltrazioni da parte dei fondamentalisti: per questo è inevitabile, anche coinvolgendo le nuove comunità espatriate, stabilire criteri di accoglienza e disporre di controlli adeguati. Il progetto di formare per un Paese così eterogeneo come l’Afghanistan, una nuova classe dirigente sulla base dei diritti universali di libertà e di uguaglianza richiede tempi non brevi di attuazione.

Le dittature instaurate dopo la prima guerra mondiale sono durate vent’anni, mentre i colpi di stato del secondo dopoguerra sono stati sconfitti dopo parecchi anni. Ma se è vero che in Afghanistan è mancato soprattutto lo Stato in tutte le sue articolazioni, allora è condizione indispensabile costruire anche una 'forza civile' che si affianchi alla resistenza interna e che si prepari a una lunga e impegnativa marcia. Come non ricordare il valore anche simbolico della parola d’ordine di Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia»? Ma il ritorno (ahimè, non nel breve termine) della democrazia a Kabul, dipenderà anche da una efficace azione di solidarietà e di sostegno alla resistenza afghana da parte di quello che possiamo ridefinire oggi il 'mondo libero'.

Le immagini degli Alleati che risalgono la nostra Penisola e inseguono i nazifascisti in ritirata 'portano' in sé la possibilità della libertà. Ma la concreta libertà degli italiani nasce nell’insurrezione delle grandi città, dalla resistenza non collaborativa delle grandi fabbriche, nelle brigate partigiane. Sono gli italiani che si ribellano, agiscono e instaurano la democrazia e non attendono che venga esportata in casa loro. È così: il protagonismo civile, sociale e politico deve essere aiutato e sostenuto per generare una speranza per tutti i popoli oppressi.

già segretario generale della Cisl

già segretario della Uil Lombardia

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