venerdì 31 marzo 2017
Il calo della fecondità riguarda anche Paesi che hanno meno risentito della recessione. Sullo sfondo c’è un clima culturale che spinge ad affrontare certe scelte con un approccio riduttivo
Le culle vuote in Europa una bomba a orologeria
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Si chiama "Statistiche Report", ma sembra quasi un bollettino di guerra. Ci si riferisce all’ultimo resoconto via web con cui recentemente l’Istat, nel diffondere gli "Indicatori demografici 2016" ci ha ufficialmente informato che lo scorso anno «la popolazione italiana ha perso 86 mila residenti», che «la natalità ha stabilito un nuovo record al ribasso nella storia del Paese», che il saldo naturale (nascite meno decessi) «è negativo e rappresenta il secondo maggior calo da circa un secolo» e, infine, che «il flusso di nostri connazionali trasferitisi all’estero – in molti casi si tratta di una vera e propria "fuga" di giovani italiani – è aumentato del 12,6% rispetto all’anno precedente». Come si vede, non mancano spunti su cui sarebbe doveroso soffermarsi – come abbiamo fatto in più occasioni –, sia per capire "come mai" siamo arrivati a vivere una crisi demografica di questa portata, sia per cercare di immaginare "con quali modalità" venirne fuori il più in fretta e nel miglior modo possibile.

Limitiamoci tuttavia al tema che, tra i molti sollevati dal Rapporto, è certamente più eclatante e rappresenta il nodo centrale – la causa principe – del cambiamento demografico che stiamo vivendo: l’inarrestabile caduta della natalità, un fenomeno che in otto anni ha registrato un salto che equivale a qualcosa come 100mila nati in meno (-18% tra il 2008 e il 2016). A tale proposito l’Istat sottolinea come nel 2016 si sia ulteriormente scesi a 474mila nascite, a fronte delle 486 mila del 2015, segnando una nuova riduzione del 2,5% che conferma il "miglioramento" del record al ribasso, in un Paese dove ormai da 39 anni non si riesce a mettere al mondo un numero di nati sufficiente a garantire il semplice ricambio generazionale. E non possiamo certo consolarci per il fatto che la discesa della fecondità interessi pressoché tutte le popolazioni economicamente più sviluppate e non sia solo una prerogativa italiana. Non sorprende che anche altrove gli effetti della crisi economica, che dal 2007 ha creato incertezza e aumentato la disoccupazione (specie tra i giovani), si siano fatti sentire sui comportamenti riproduttivi.



Basti osservare come il numero medio di figli per donna negli Stati Uniti sia sceso da 2,12 nel 2007 a 1,84 nel 2015. E come in Europa, nello stesso intervallo di tempo, un’analoga riduzione – seppur di tono decisamente inferiore – abbia interessato il Regno Unito (da 1,86 a 1,80), la Svezia (da 1,88 a 1,85) e persino la Francia (da 1,96 a 1,92), ultimo baluardo nel vecchio continente – con Irlanda e Islanda – a scendere sotto la soglia dei "due figli per donna" nel corso dell’ultimo decennio. Ma è proprio alla Francia che conviene guardare per cogliere la reale dimensione di quanto sta accadendo alla natalità nel nostro Paese. I cugini d’oltralpe, 64,9 milioni di residenti al 1° gennaio 2017, non sono poi così più numerosi dei 60,6 milioni di italiani che l’Istat ha conteggiato alla stessa data, eppure nel corso 2016 sono state 273 mila le nascite che hanno fatto la differenza tra i due Paesi (in Francia se ne sono avute il 58% in più). E mentre tra il 2008 e il 2016 – in costanza di crisi economica – sono nati in Italia solo 4,8 milioni di bambini, oltralpe ne sono venuti al mondo ben 7 milioni.

Come si spiega un divario così consistente? La risposta va cercata nel quadro dell’ampio e coerente pacchetto di politiche sociali e familiari – con contributi economici e benefici anche di ordine fiscale – su cui può contare la popolazione francese, diversamente da quella italiana. Misure che sembra siano valse in buona parte ad attenuare i condizionamenti negativi della crisi economica sulle scelte di fecondità, per lo meno in corrispondenza delle famiglie in cui la donna era in età "più matura". I dati degli ultimi anni mostrano, infatti, un sostanziale tenuta – persino una lieve crescita – per la fecondità delle francesi ultratrentenni, mentre al contrario segnalano un ribasso in corrispondenza delle più giovani. Ben diversa è la realtà italiana, dove accanto al forte calo della fecondità tra le giovani donne – in parte riconducibile al crescente allungamento dei tempi di avvio della vita di coppia – si osserva altresì una significativa riduzione della propensione alla maternità in corrispondenza della fascia delle 30-39enni. Ossia di donne che spesso hanno già un primo figlio e che, senza adeguati aiuti sul piano economico e dell’organizzazione della vita familiare (lavoro, cura dei figli, casa, ecc.) tendono a procrastinare la scelta di una nuova maternità e quindi spesso a rinunciarvi definitivamente.

Di fatto, se è vero che il crescente disagio giovanile "nel segno della crisi economica" e le conseguenti decisioni che portano al rinvio della genitorialità sembrano fenomeni che travalicano i confini nazionali entro lo spazio europeo (e non solo), è pur vero che, come testimoniano le più recenti tendenze, il calo della fecondità si è diffuso anche in Paesi che hanno meno risentito (o per meno tempo) l’effetto penalizzante dei venti di crisi. L’impressione che si ha a volte, leggendo i dati demografici di questa Europa così poco vitale, è che oltre alle motivazioni legate alle condizioni di contesto entro cui maturano le scelte procreative, vi sia sullo sfondo anche un clima culturale che spinge gli abitanti della "vecchia Europa" ad affrontare tali scelte sempre più con un approccio riduttivo legato alla visione del presente; come se fossero incuranti del futuro e irrimediabilmente spersi nel costante impegno di orientarsi e scontrarsi con le mille problematiche della vita quotidiana. Alcuni rinunciano a fare altri figli perché ormai relativamente maturi e convinti che l’obiettivo primario sia quello di gestire al meglio, più che sviluppare, la propria realtà familiare, altri rinunciano (o rimandano) perché ancora giovani e talvolta privi (o privati) di speranze e stimoli per compiere scelte importanti e impegnative come è, per l’appunto, quella del vivere l’esperienza di una propria famiglia e dell’essere genitori.

Tutto questo entro il mosaico di differenti realtà nazionali che – definite da condizioni economiche, sociali, normative, ambientali, ecc. – possono aiutare le coppie nella decisione di avere un (o un altro) figlio, come nel caso francese, o viceversa possono abbandonarle a vedere tale scelta unicamente come un loro "fatto privato", ed è quanto avviene normalmente in Italia. Salvo poi, in quest’ultimo caso, esporsi alle conseguenze dei cambiamenti – basti pensare ai temi "nostrani" delle pensioni e della sanità – che derivano dal non aver tempestivamente perseguito l’obiettivo di un adeguato ricambio generazionale. In conclusione, i dati statistici lasciano intendere come la crisi demografica che investe l’Europa non sia solo un fatto congiunturale. La velocità con cui stanno cambiando i modelli di vita e il sistema dei valori rischia infatti di consolidare e rendere strutturali quegli stessi fenomeni che pur hanno avuto origine da fattori e da eventi congiunturali. Dobbiamo convincerci che la crisi demografica che stimo vivendo è importante e pericolosa per gli equilibri delle società europee almeno quanto la crisi economica (se non di più), e come tale va attentamente seguita e adeguatamente contrastata sia con gli strumenti della politica, sia (forse ancor di più) sul piano della cultura e della difesa dei valori.

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