Trump e l’escalation anti-Iran
sabato 4 gennaio 2020

Diceva da molti anni di inseguire continuamente il martirio, ben sapendo di essere sovraesposto e nel mirino di diversi Paesi. Ieri, nelle vesti di un missile statunitense, la morte ha infine afferrato il potente generale iraniano Qassem Soleimani, la cui azione era l’architrave dei grandi successi strategici regionali della Repubblica islamica dell’Iran. Un’uccisione a freddo che – al di là delle pur ineludibili questioni morali legate all’uso dei droni come freddi cecchini tecnologici – rappresenta un’escalation dalle conseguenze difficilmente valutabili. E che riflette l’atteggiamento incomprensibile e indifendibile dell’Amministrazione Trump, la quale sembra procedere ormai senza alcuna seria pianificazione strategica, per colpi di testa, mosse impulsive, in balìa di consiglieri improvvisati e radicali.

Uccidere il militare operativo più importante di tutto il Medio Oriente, una figura quasi leggendaria tanto dentro quanto fuori i confini iraniani, molto più popolare del regime che cercava di difendere e rafforzare, è una mossa che non sarà priva di conseguenze, nel breve e nel lungo termine. I pasdaran sanno prendere le loro vendette anche a distanza di molti anni, come dimostrato in questi decenni contro i loro nemici, ma sono le risposte asimmetriche regionali che preoccupano maggiormente. E non è chiaro se Washington le abbia soppesate attentamente. Né si capisce che cosa si possa ottenere da questa uccisione a livello strategico, se non avvicinarsi ulteriormente a un conflitto aperto con l’Iran, obiettivo neppure troppo velatamente auspicato dai falchi attorno a Trump o dalle lobby collegate ai circoli di potere più radicali di Israele e Arabia Saudita che influenzano l’erratico procedere della Casa Bianca.

Eliminare il propagandato stratega dell’espansione geopolitica regionale iraniana proprio nel momento in cui Teheran è in forte difficoltà nel gestire i costi economici e diplomatici della propria sovraesposizione sembra addirittura autolesionista. Sul fronte interno, la creazione di questo super-martire riduce i già miseri spazi per i fautori di una politica moderata dentro la frammentata élite di potere iraniana e rafforzerà chi spinge per l’abbandono totale di quell’accordo nucleare già denunciato unilateralmente da Washington.

Ma paradossalmente spinge gli sciiti iracheni che erano molto divisi, e sempre più insofferenti verso le interferenze iraniane, se non a ricompattarsi, a rafforzare la loro ostilità alla presenza militare statunitense. Soprattutto umilia in modo sprezzante il governo dell’Iraq, a loro alleato. Uccidere Soleimani, oltre al leader delle potenti milizie Kata’ib Hezbollah, Abu Mahdi al-Muhandis, e la loro scorta all’aeroporto di Baghdad, è un gesto di arroganza e una violazione di ogni simulacro di sovranità di questo fragile Paese, come ha subito evidenziato con dure parole il massimo leader religioso sciita iracheno, il grande ayatollah Sistani, da sempre autorità prudente e moderata.

L’attacco mette poi in difficoltà estrema un sistema politico piegato dalle proteste popolari e dalle dimissioni del suo primo ministro e rafforza le voci di chi chiede l’allontanamento di tutte le forze statunitensi. L’impressione è che l’umoralità di Trump, il suo essere sotto impeachment e le pressioni dei "falchi" attorno a lui, senza più la rete di protezione di seri consiglieri militari, tutti cacciati o fuggiti dalla Casa Bianca, abbiano giocato un ruolo decisivo, senza una seria valutazione delle conseguenze regionali.

Che possono anche non essere decise necessariamente a Teheran. Proprio la mitizzazione di questo super- generale, fatta dai suoi nemici, può spingere all’emulazione del 'martirio': da ormai molti anni, lo shahid (il martire islamico) produce un pericoloso effetto imitativo, di mimesi, che aumenta esponenzialmente con l’importanza di chi 'ottiene il martirio'. La scomparsa di un capo militare astuto e carismatico è certo una perdita grave per Teheran.

Ma che la sua morte finisca per essere un vantaggio per la politica regionale degli Stati Uniti e dei suoi alleati è tutto da dimostrare. I generali si sostituiscono sempre, mentre quando si getta sale su di un campo, non cresce più nulla. Per nessuno.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI