Ombre cinesi sulla sconfitta della povertà
venerdì 26 febbraio 2021

L’annuncio è stato altisonante, la tempistica accuratamente studiata. Nell’anno in cui il Partito comunista cinese festeggia i cento anni dalla sua nascita, il suo 'leader supremo' Xi Jinping ha proclamato che la Cina ha sconfitto la povertà estrema. Una 'vittoria totale', arrivata alla fine di una 'guerra' durata otto anni e che ha sollevato dalla povertà qualcosa come cento milioni di persone. Un successo che Xi ha intestato interamente al Partito e al modello socialista, fondamentali, a suo dire, nel raggiungere «l’obiettivo di costruire una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti».

Grazie a un’aggressiva politica di spesa – Pechino ha investito 1.600 miliardi di yuan (246 miliardi di dollari) dal 18esimo congresso del Partito comunista cinese – 128.000 villaggi e le 832 contee, ufficialmente censiti come in estrema difficoltà, sono stati tutti rimossi dalla lista dell’indigenza. In 40 anni, a partire dalle riforme e dall’apertura del Paese verso l’esterno, «oltre 770 milioni di persone sono state portate fuori dalla povertà», ha insistito Xi. Un successo, senza dubbio. Legato, prima di ogni cosa, alle straordinarie performance dell’economia cinese. Negli ultimi due decenni, il reddito nazionale lordo pro capite del Dragone è cresciuto più di dieci volte, passando da 940 dollari (nel 2000) a 10.410 (nel 2019). Per fare un confronto: il doppio del 'balzo' fatto registrare dalla Russia, la seconda economia Brics in più rapida crescita.

Dietro il luccichio dei numeri (e dei proclami), però, ci sono anche molte ombre. A cominciare dalla definizione stessa della soglia di povertà. La Cina l’ha fissata a 1,52 dollari al giorno, la Banca mondiale a 1,90. Una differenza non da poco che può 'spostare', e anche significativamente, i numeri. Ma non basta. La 'grande vittoria' proclamata da Xi non ha scalfito le gigantesche disuguaglianze che vulnerano la Cina, a cominciare da quelle tra città e campagne e tra est e ovest del Paese. A Shanghai il reddito annuo pro capite, nel 2019, era di 10.052 dollari. A circa duemila chilometri a ovest di Shanghai, i residenti della provincia di Gansu vivono con un reddito di 2.771 dollari. Poi c’è il 'capitolo' lavoratori migranti rurali.

Nel 2019 erano 290,8 milioni, pari a circa il 37,5% della forza lavoro totale del Paese. Una massa enorme, fluttuante, di lavoratori e cittadini 'invisibili', spesso del tutto priva di tutele, a partire dall’assicurazione medica. C’è poi un altro risvolto inquietante di questa lunga 'guerra'. Xi ha legato il dossier 'lotta alla povertà' a quello 'lotta alla corruzione': sono, di fatto, i due pilastri della strategia con cui ha conquistato la scena e il potere.

Ma la lotta alla corruzione si è trasformata, spesso, in uno strumento di eliminazione dei 'nemici' politici. La stessa battaglia alla povertà, come sottolinea il sito China Power, è diventata poi un modo per elargire soldi e favori. Insomma, la corruzione 'decapitata' dall’alto è stata in qualche modo alimentata dal basso. In questo cortocircuito, Xi ha finito per assommare una concentrazione spaventosa di ruoli e funzioni, il cui potere censorio è di fatto, oggi, senza limiti in Cina.

Non solo: per alimentare il motore della sua economia, Pechino ha messo in campo un’aggressiva politica di espansione all’estero. Una sorta di neocolonizzazione, che ha investito soprattutto l’Africa e il Sudamerica, e che di fatto 'scarica', almeno parzialmente, su altri Paesi i costi economici, sociali e ambientali della crescita cinese. «La società moderatamente prospera», invocata da Xi dati alla mano, è sicuramente più vicina. Ma «una società moderatamente» equa e libera è ancora molto lontana.

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