giovedì 11 ottobre 2018
La distensione nell'aera si deve principalmente al nuovo premier etiope Abiy Ahmed. Tuttavia restano le tensioni. Ecco cosa può fare il nostro Paese
(Ansa)

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Il viaggio di oggi e domani, 11 e 12 ottobre, di Giuseppe Conte, primo capo di governo europeo a recarsi in Etiopia e in Eritrea dopo la firma del trattato di pace a Gedda il 16 settembre scorso, va valutato positivamente perché rinnova l’interesse italiano verso l’Africa orientale cui la storia coloniale ci ha legati e apre opportunità di investimento per le aziende italiane e di sviluppo per l’area. Ma occorre fare chiarezza su tutti gli aspetti, compreso quello umanitario legato all’immigrazione, finora passato in secondo piano eppure convitato di pietra della missione. Che l’Etiopia, per bocca dell’ambasciatrice etiope a Roma Zenebu Tadesse Woldetsadik valuta positivamente perché «rafforzerà ulteriormente i rapporti bilaterali fra Etiopia e Italia nei settori chiave della cooperazione, specialmente per il commercio e gli investimenti, la pace e la sicurezza». Del resto è italiana la Salini Impregilo, che in Etiopia sta costruendo la diga più grande dell’Africa sul Nilo Azzurro.

Certo, dal punto di vista dello sviluppo economico l’Italia dovrà fare i conti con il ruolo preponderante della Cina, che vanta una presenza ultradecennale, prima in Etiopia, con importanti investimenti infrastrutturali (ferrovie e strade) e ora in Eritrea, con investimenti nei porti. Anche dal punto di vista geopolitico siamo in ritardo. La pace, formalmente nata per iniziativa del nuovo premier etiope Abiy Ahmed, è stata fortemente voluta dalla monarchia saudita con il tacito assenso di Washington. Re Salman vuole assumere un ruolo preminente nel Corno come nel mar Rosso. Se l’Egitto ha infatti il controllo del Canale di Suez, all’Arabia saudita preme il controllo dello stretto di Bab al Mandeb. Così in pochi giorni, su impulso di Riad è arrivato un inatteso accordo di cooperazione commerciale nell’area con la Somalia e la distensione a sorpresa tra l’Asmara e Gibuti dopo un decennio di ostilità per questioni di confine. Il Corno ha tutte le caratteristiche per stabilizzarsi dopo un quarto di secolo. Il gigante etiope (che con oltre 100 milioni di abitanti è il secondo Paese africano), che ha scoperto il petrolio sul proprio suolo nel sudest a giugno, ha così ritrovato lo sbocco al mare grazie ai porti eritrei di Assab e Massaua per commerciare ed eventualmente esportare greggio. Ora, esauriti i classici 100 giorni di luna di miele con il nuovo premier, deve risolvere le questioni etniche interne tra Amhara e Oromo. Resta da affrontare la questione della Somalia, ancora squassata dalla guerriglia delle milizie islamiche di Al Shabaab e il nodo immigrazione legato all’Eritrea, da 15 anni il Paese che in proporzione alla popolazione genera il maggior flusso di rifugiati.

La dittatura di Isaias Afewerki, accusata da tutte le organizzazioni umanitarie di violazioni dei diritti umani, negli anni ha sospeso la Costituzione, chiuso la stampa libera e imprigionato almeno 10 mila oppositori in 57 carceri in un territorio grande come il Lazio. Ha creato uno Stato contemporaneamente prigione e caserma con la coscrizione forzata a durata illimitata per i cittadini tra i 17 e i 50 anni. Due relazioni finali della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite del giugno 2015 e 2016 accusano il regime di aver eletto a sistema il terrore schiavizzando il popolo. Per l’Onu, il cui Consiglio di sicurezza ha sanzionato l’Eritrea nel 2009 e nel 2011 per il sostegno ai terroristi di Al Shabaab, ci sono fondati elementi per deferire i principali responsabili del Governo di fronte alla Corte penale internazionale. Questa situazione di paria della comunità internazionale dell’Eritrea ha portato gli Stati occidentali a concedere quasi automaticamente lo status di rifugiato agli eritrei. Si calcola che in Etiopia siano fuggite per anni fino a 3.000 persone al mese per poi passare in Sudan e da qui in Libia. Consistente anche il flusso verso il Sudan, per anni hub verso i Paesi del Golfo, l’Egitto e l’Europa.

Dall’inizio del rapido processo di pace, l’attivissima propaganda del regime, rilanciata da siti sovranisti e da alcuni insospettabili periodici, sta facendo passare nell’opinione pubblica europea l’idea che la fine dello stato di 'non guerra' e 'non pace' che durava dal 2000 con l’Etiopia, abbia fatto decadere il diritto degli eritrei a chiedere asilo perché non v’era più una guerra da cui fuggire. Alla fine di agosto il senatore marchigiano pentastellato Coltorti dichiarava che «in Eritrea e in Etiopia non si sta così male». Il vice presidente leghista della Commissione Esteri della Camera, Paolo Grimoldi, in un’interrogazione parlamentare ha chiesto che venissero tolte le sanzioni Onu all’Eritrea affermando che «il 70% di coloro che giungono nell’Unione europea dichiarandosi eritrei provengono soprattutto da altri Paesi limitrofi (Etiopia, Somalia e Sudan), ciò in conseguenza proprio delle sanzioni del 2009 e 2011, perché sulla loro scia l’Ue ha attuato una politica di 'fare i ponti d’oro' a qualsiasi eritreo che abbandonasse il Paese, promettendogli rifugio politico e incentivando così la migrazione di giovani eritrei verso l’Europa, in particolare l’Italia». Parole gravi senza riscontro con la realtà, curiosamente somiglianti alle bufale messe in rete anche sui siti sovranisti italiani da sostenitori del regime eritreo. Da anni infatti i profughi eritrei usano l’Italia come ponte verso il Nord Europa senza fermarsi. Sulla loro nazionalità e sullo svuotamento del Paese di giovani fa fede 'Dov’è tuo fratello?' la coraggiosa lettera pastorale dei vescovi cattolici eritrei del 2014 sull’esodo dei giovani.

Sempre sulla nazionalità dei profughi, l’Alto comissariato delle Nazioni unite in Etiopia lo scorso 5 ottobre ha diramato questa nota: «La riapertura dei punti di attraversamento del confine tra Eritrea ed Etiopia ha portato a un significativo incremento dei nuovi arrivi, con una crescita del tasso di passaggi da 53 a 390 individui». Tra il 12 Settembre e il 3 Ottobre 2018, prosegue la nota, 6.779 rifugiati sono stati registrati nel centro di accoglienza di Endabaguna e altri 2.725 aspettano di essere sistemati. Il 90% dei nuovi arrivi sono donne con bambini e minori non accompagnati. Questo probabilmente perché si muovono per il ricongiungimento famigliare. Il flusso – dicono esponenti dell’opposizione in esilio – è costituito anche da persone istruite e benestanti. Dunque l’unica libertà concessa dal regime, quella di movimento, viene usata per fuggire perché nulla è cambiato: la leva non è stata ridotta – anche se vi sono segnali positivi – la stampa libera resta fuori legge, non c’è Costituzione né sistema giudiziario, non sono alla vista libere elezioni e rimangono in galera gli oppositori. Il segnale che tutto è cambiato all’esterno dei confini perché nulla cambi all’interno è stato l’arresto, la mattina del 16 settembre scorso all’Asmara, dell’ex ministro delle Finanze Berhane Abrehe che ha pubblicato un libro di accuse al regime di Isaias Afewerki sfidando il presidente a un pubblico dibattito televisivo e rifiutandosi di fuggire dal Paese.

Se nella regione soffia «un vento di speranza», come ha detto il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, l’Italia può fare la sua parte per fermare l’esodo del popolo eritreo aiutandolo 'a casa sua'. Il premier Conte, avvocato di grido, sollevi con il regime la questione del rispetto dei diritti umani e civili perché senza democrazia non c’è sviluppo autentico e senza giustizia non c’è pace. Sarebbe anche importante che compiesse un gesto come quello suggerito da don Mosè Zerai, prete che da anni si oppone al regime e aiuta i profughi: definisca un accordo per riportare in Eritrea le salme delle vittime della strage del 3 ottobre 2013 a Lampedusa e di tutti gli altri giovani profughi annegati nel Mediterraneo e sepolti in Italia.

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