Aiutiamo Dio a sognare
sabato 2 luglio 2022

E la voglia di lasciare la casa paterna per andare incontro al limite. In quel limite un angelo aveva deposto l’uovo della conoscenza divina.
Alda Merini
"Voce di carne e di anima"

La crisi profonda e radicale delle religioni è la crisi della parola Dio. Prima della "parola di Dio" è stata la "parola Dio" a fondare le fedi e le culture. Per millenni è stata la parola più splendente della terra. Nella Bibbia era talmente splendente da non poterla quasi pronunciare, affinché l’ineffabilità della parola più splendente custodisse la luce di tutte le altre. Ma anche nelle altre religioni, dove quella parola era spesso associata al tremendum, non c’era comunque parola più splendente e stupefacente di: Dio.

Nell’Occidente cristiano questo splendore è stato capace di muovere persone e comunità fino alla seconda metà del Novecento, quando è fiorita una nuova stagione di entusiasmo collettivo e giovanile attorno alla parola Dio. Decine, centinaia di migliaia di uomini e donne hanno speso la vita per conoscere Chi fosse quello splendore, e poi stargli vicino. Si partiva di casa per molte cose – le partenze dei giovani sono sempre plurali –, ma soprattutto si andava per diventare intimi di Dio, persone della sua casa. Si resta dentro una vocazione finché quel primo splendore non si estingue, o continuiamo a desiderarlo nella sua assenza.

Oggi la parola Dio sta perdendo splendore. E se le religioni sono la custodia e la gestione degli effetti generati dalla pronuncia della parola Dio, quando questa parola non illumina più, le fedi iniziano a spegnersi, le ore sono meno abbaglianti. Nessuna preghiera e nessuna liturgia ci rapisce e incanta se mentre diciamo "Dio" tutto attorno non si illumina. Ci sono persone che hanno pregato raggiungendo vette di umanità, sussurrando per tutta la vita una sola parola: "Gesù". L’autore del libro di Daniele vive in un tempo in cui le visioni erano scarse. La Bibbia conosce bene queste stagioni di penombra della fede – «In quei tempi le visioni non erano frequenti» (1 Samuele 3,1). Il popolo faceva fatica a percepire la presenza di YHWH nella sua storia, Dio era sempre più velato dalla sua trascendenza, in un tempo di grande persecuzione. Daniele risponde a questa sensazione di lontananza di Dio con due innovazioni. La prima furono le visioni-sogni: nella Bibbia le visioni si trovano in molti libri, ma in quello di Daniele sono la parte più importante. Se il popolo non sente Dio vicino, gli uomini e le donne possono provare a sognarlo. Possiamo donare a Dio i nostri sogni, lì tornare a parlarci bocca-a-bocca, fino a che un giorno, al termine della notte, quel dialogo continuerà a occhi aperti – i poeti e gli artisti sono anche coloro che iniziano a sognare Dio nei tempi in cui scompare. La seconda innovazione furono gli angeli. Noi sappiamo, e anche Daniele lo sapeva, che gli angeli non sono Dio. E non sono neanche quegli oggetti oggi molto amati da quella produzione al confine tra fiction e new-age, che tanto piace al nostro capitalismo e alle sue luci abbaglianti perché artificiali. Nella Bibbia gli angeli sono i cugini celesti dei profeti terreni, quindi sono cose serie. Come è cosa molto seria la presenza degli angeli nell’arte – cosa sarebbe il Rinascimento senza angeli? – e nelle preghiere della gente, che senza conoscere né la teologia né la Bibbia amava e ama gli angeli, soprattutto l’angelo custode. Gli angeli hanno saputo dare un senso al dolore forse più grande della terra, quello dei bambini che muoiono – guai a ridicolizzare il dolore della gente in nome delle fedi razionaliste, o a chiamarla con disprezzo "fede dei semplici". Più studio la Bibbia e i suoi esegeti, più stimo la fede e la pietà popolare. Se troveremo un nuovo splendore di Dio questo non verrà dai professori: verrà ancora dalla gente, dai poeti, dai bambini e dai poveri. In Daniele alcuni angeli hanno un nome. Tra questi ce n’è uno dal nome stupendo, co-protagonista di uno dei dialoghi terra-cielo più belli di tutti i tempi: si chiama Gabriele.

«Il terzo anno del regno del re Baldassàr io, Daniele, ebbi un’altra visione … Quand’ebbi questa visione, mi trovavo nella cittadella di Susa» (Daniele 8,1-2). Con il capitolo 8 si lascia la lingua aramaica e si torna all’ebraico. Daniele, come il suo maestro Ezechiele, è trasportato in visione in una città dell’Iran di oggi. Lì gli appare «un montone, in piedi, che stava di fronte al fiume. Aveva due corna alte (...) nessuna bestia gli poteva resistere» (8,3-4). La visione continua con «un caprone che veniva da occidente: aveva fra gli occhi un grande corno. Si avvicinò al montone dalle due corna e gli si scagliò contro con tutta la forza ... Poi lo gettò a terra e lo calpestò e nessuno liberava il montone dal suo potere» (8,5-7). Ma anche qui, quando il caprone-unicorno è giunto «al culmine della sua forza, quel suo grande corno si spezzò e al posto di quello sorsero altre quattro corna» (8,8). Da una di queste corna "uscì un piccolo corno... che s’innalzò fin contro l’esercito celeste e gettò a terra una parte di quella schiera e una parte delle stelle e le calpestò» (8,9-11). Il montone è Dario III, re «dei persiani e dei medi» (8,20), sconfitto nel 331 a.C. dal «caprone», cioè Alessandro Magno macedone, «il re dei greci» (8,21), che giunto all’apice del suo immenso impero (dall’Egitto all’Himalaya) morì improvvisamente a Babilonia (a 33 anni) e il suo regno fu diviso tra i suoi quattro generali. Da uno di questi corni spunterà il tremendo Antioco IV Epifane, il "corno piccolo", un sovrano che regnava mentre l’autore di Daniele scriveva il suo libro, che sfidava anche il cielo e lo calpestava (profanando il tempio di YHWH).

Anche questa volta, come nel capitolo 7, Daniele ha bisogno di un angelo-interprete che gli spieghi la visione, e per la prima volta nella Bibbia appare un angelo con un nome proprio. Dal centro della visione una voce, forse la voce di Dio, ordina: «Gabriele, spiega a lui la visione» (8,16). Al termine della spiegazione, Gabriele dice che anche il piccolo corno «verrà spezzato senza intervento di mano d’uomo» (8,25). Una nota su questi generi letterari nella Bibbia. L’autore di Daniele scrive nel II secolo a.C., e da lì si chiede: «Fino a quando durerà il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il santuario e la milizia calpestati?». Un angelo risponde: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa giustizia» (8,13-14). L’angelo Gabriele alla fine conferma a Daniele che «la visione delle sere e delle mattine che è stata spiegata è vera» (8,26). Quella conferma della verità della visione era necessaria per il lettore di Daniele che si trovava sotto una tremenda persecuzione e non sapeva se e quando sarebbe terminata – fino a quando?.

Quell’antico scriba scriveva per confermare nella fede e nella speranza i suoi compatrioti oppressi e sfiniti. E poi Gabriele dice a Daniele: «Ora tu sigilla la visione, perché riguarda cose che avverranno fra molti giorni» (8,26). Il libro di Daniele è ambientato al tempo dell’esilio Babilonese, circa quattro secoli prima dei fatti dei quali è spettatore l’autore del libro. L’angelo deve quindi dire: tieni segreta la visione, perché queste cose avverranno tra molto tempo, cioè per un tempo futuro per il personaggio Daniele ma presente per l’autore del libro di Daniele. In altri casi, però, quando i profeti sono invece personaggi storici e autori dei loro libri, siamo in una situazione radicalmente diversa. I profeti denunciano peccati del loro tempo storico, ma gli uditori dei profeti per confutare e non ascoltare i profeti veri (e per seguire i falsi) dicevano, ad esempio, a Ezechiele: «La casa d’Israele va dicendo: "La visione che costui vede è per i giorni futuri; costui predice per i tempi lontani"» (Ez 12,27). Usavano dunque il futuro per negare il presente. La profezia riguarda sempre il presente, anche quando, per genere letterario, parla di futuro, perché il profeta si rivolge alla sua gente concreta; ma, ieri e oggi, si rimandano al futuro le parole che non ci piacciono. Nella Bibbia il futuro è in genere buono, è il luogo dell’avveramento della promessa, ma, anche in questo caso, sono le parole buone (non quelle cattive) a essere oggetto delle peggiori manipolazioni dei falsi profeti.

Infine, un’ulteriore nota antropologica sulla profezia e su chi si trova a svolgere una funzione di mediatore di sogni. Al termine della visione, "Io, Daniele, rimasi sfinito e mi sentii male per vari giorni: restavo sconvolto dalla visione, perché non la potevo comprendere" (8,27). Non la potevo comprendere: Daniele aveva avuto l’aiuto di Gabriele che gli aveva spiegato la visione, eppure non la comprendeva. A volte i profeti capiscono le proprie visioni, a volte no. Per dirci, forse, almeno due cose. La prima: il profeta non è l’ultimo destinatario delle proprie visioni, perché i suoi sogni sono per altri, per il suo popolo – sono per noi. Lui, lei, è il luogo dove accade la visione, è il corpo e la voce delle parole e delle immagini che riceve in dono, ma il profeta non è il consumatore dei suoi sogni. Quindi comprenderli non è necessario. Perché, ed è questo il secondo cruciale messaggio, c’è una speciale castità dei profeti e dei loro fratelli: la castità dalle proprie visioni e dai propri sogni. Quando un profeta interpreta i sogni altrui, la castità che gli viene richiesta riguarda gli altri, perché non deve diventare padrone dei loro sogni. Ma quando, nonostante l’angelo-interprete, non riesce a comprendere i propri sogni, quello è il tempo opportuno per apprendere l’arte del distacco dalla comprensione dei propri sogni. Il profeta dice con parole sue parole-non-sue, dice con la sua bocca parole che gli sono dettate dentro l’anima – sta in questa consapevolezza la differenza tra un profeta vero e uno falso. Allora questa tensione deve valere anche per i sogni dei profeti: è Dio che sogna in loro, affinché tramite i profeti ci giungano i sogni di Dio. E se il profeta si appropria dei suoi sogni, impedisce a Dio di sognare sulla terra e a noi di conoscere i suoi sogni.

Alla Bibbia questa seconda castità è talmente cara da rendere, qualche volta, i suoi profeti incapaci di capire i loro propri sogni che ci raccontano, di non capire la spiegazione che ricevono dagli angeli. E così la Bibbia insegna qualcosa di molto prezioso anche a noi che profeti non siamo. Ogni tanto ti può succedere di non capire un tuo sogno grande: tu raccontalo lo stesso, perché forse quel sogno non è per te, è un sogno di Dio che qualcuno sta aspettando per continuare a vivere.
l.bruni@lumsa.it

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