domenica 8 ottobre 2023
Daniela vive nel moshav di Kokhav Michael. "Non sono riusciti ad arrivare fino a qui. I nostri amici si trovavano nel Kibbutz Beeri e sono scappati con gli spari alle spalle". Il dramma dei dispersi
I tank israeliani nell'area di Sderot

I tank israeliani nell'area di Sderot - ANSA

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“La settimana scorsa commemoravamo i 50 anni dalla morte di mio zio, caduto nella guerra di Yom Kippur, e ora siamo barricati in casa senza sapere quando potremo uscire. Sembra di essere finiti nel peggiore dei film distopici di produzione hollywoodiana”.

Parla al telefono e dalla voce traspare tutta la paura, tutta l'angoscia di chi sta vivendo ore da incubo. Daniela Fubini, nata e cresciuta a Torino, dal 2008 vive in Israele e dal 2018 a Kokhav Michael, un moshav nel sud di Israele, non lontano dai villaggi che ieri sono stati ferocemente attaccati dalle milizie di Hamas.

“Nonostante non siano riusciti ad arrivare fino qua, viviamo nel panico dalle 6.30 di sabato mattina quando, subito dopo essere stati svegliati dalla prima sirena, dopo essere corsi al riparo con mio marito e mio figlio di due anni nel mamad – la stanza antimissili - che fortunatamente, cosa non affatto scontata, si trova all’interno della nostra unità abitativa, abbiamo acceso i telefoni e abbiamo scoperto cosa stesse succedendo nei kibbutz e moshav qui accanto e abbiamo assistito, praticamente in diretta, a un film dell’orrore”

Come ci spiega Daniela, fino ai precedenti cinque conflitti con Hamas, per proteggersi, in teoria, era sufficiente un rifugio antimissili, ma non necessariamente avere una porta blindata. In questo conflitto, invece, chi si è salvato la vita e non è stato ucciso o catturato come ostaggio dal gruppo terroristico, è chi è riuscito a trovare riparo in un rifugio blindato, cosa che fino ad oggi non era mai stata considerata una variabile determinante per la sopravvivenza.

“Mentre cercavamo di capire cosa stesse succedendo attraverso i media locali, in tempo reale venivamo a conoscenza del dramma di famiglie che vivono vicino a noi. Alcuni figli di nostri amici si trovavano alla festa presso il Kibbutz Beeri ma sono riusciti a scappare correndo mentre gli arrivavano addosso gli spari. Si sono nascosti per ore aspettando che fosse buio prima di tornare a casa, non sapendo nemmeno quello che avrebbero trovato e soprattutto, se avrebbero ritrovato una casa. Ma sono sono riusciti a salvarsi. Purtroppo, a distanza di 48 ore, ancora non sappiamo che fine abbiamo fatto i nonni di un compagno di asilo di nostro figlio, che vivevano in uno dei villaggi limitrofi. Temiano siano ostaggi a Gaza”

Gli scomparsi sono centinaia, come si riscontra di ora in ora sui social. Un elemento distintivo di questo conflitto, rispetto a quelli precedenti, è la diffusione delle immagini e dei video tramite media. Non solo da parte di Hamas. Anche i cittadini israeliani stanno cercando di diffondere il più possibile le notizie in patria e all’estero. "Appena si apre un social o un gruppo WhatsApp – ci racconta Daniela – immediatamente si trova la foto e la descrizione di uno dei dispersi. Lo scopo di questo strumento è duplice: da un lato, nell’immediato, si spera che qualcuno sia finito privo di conoscenza e di documenti identificativi in uno dei tanti ospedali del sud e che venga riconosciuto dal personale medico o paramedico. Dall’altro, nel lungo periodo, l’intenzione è che queste immagini facciano il giro del mondo, per spiegare il dramma in cui ci troviamo, con figli, nipoti, ma anche genitori e nonni, strappati dalle loro famiglie, torturati, e oggetto di un trattamento che non rispetta in alcun modo i diritti umani che dovrebbero essere garantiti a un prigioniero di guerra.”

Questo conflitto è un duro colpo per tutto il Paese. Come la Guerra di Yom Kippur, altra grande macchia nella storia di Israele, a causa della totale negligenza da parte del governo, dell’esercito e dell’intelligence di allora. “Sono passati 50 anni e sembra di non aver tratto nessun insegnamento dagli stessi errori che sono stati commessi allora. Proprio pochi giorni fa commemoravamo il sacrificio di mio zio, Marco Mordechai Voghera, come me arrivato in Israele dall’Italia in giovane età. Un riservista che aveva fatto solo tre mesi di addestramento, disposto a sacrificare la propria vita per la sua nuova patria, morto sul canale di Suez all'inizio della Guerra di Kippur. Nonostante tutti i libri di storia e le serie televisive uscite proprio in occasione dell’anniversario di una delle pagine più buie della storia di Israele, oggi come allora, il Paese è stato lasciato allo sbando da una totale mancanza di leadership”.

Ci sentiamo completamente abbandonati – conclude Daniela - Ormai nei moshav e nei kibbutz ci si sta organizzando con turni di volontari che sorvegliano i confini 24 ore su 24. Non avrei mai potuto immaginare che saremmo dovuti arrivare a questo punto. Sono mesi che i politici e i media locali si riempiono la bocca di frasi fatte sulla spaccatura interna al Paese come ai tempi della Guerra di Kippur, con riferimento alla confusione e divisione interna causata dalla cosiddetta riforma giudiziaria. Ma la vera spaccatura interna al Paese è cominciata questo sabato e avrà conseguenze enormi. Sabato è cominciato il Kippur del 2023. E potrebbe durare molto a lungo”.

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