sabato 23 maggio 2020
L’invio di 8 caccia russi ad Haftar segna l’impegno ufficiale nel conflitto, dopo il paravento dei mercenari. Con Erdogan che appoggia Tripoli si prefigura uno schema di dominio e spartizione
Convoglio di mezzi militari del goveno di Tripoli lascia Misurata

Convoglio di mezzi militari del goveno di Tripoli lascia Misurata - Reuters

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Decisamente roboante l’annuncio di mercoledì del capo dell’aviazione dell’Esercito libero siriano: presto ci sarà «la più grande campagna aerea della storia libica». Non pare realistico che una offensiva nei cieli, a compensare dopo un anno di assedio la ritirata fallimentare da Tripoli delle forze di Khalifa Haftar malcelata dietro le celebrazioni di fine Ramadan, possa superare i raid aerei compiuti, sotto l’ombrello Nato, dalla Francia di Nicolas Sarkozy nel marzo 2011. Ma non è solo propaganda. Di certo l’arrivo due giorni fa in Cirenaica, dalla base russa di Latakia in Siria, di sei Mig e due Sukhoi-24 rappresenta un salto di qualità militare. Ma soprattutto assistiamo a una temibile svolta in “chiave russo-turca” di una guerra civile sinora – nonostante gli sforzi Onu e i numerosi vertici, promossi anche dalla Farnesina – senza soluzione. All’inizio dell’offensiva su Tripoli, nell’aprile dello scorso anno, il generale Haftar poteva contare solo su una quindicina di velivoli, tecnicamente desueti. Un portavoce dell’Esercito nazionale libico ha annunciato ieri di aver ripristinato altri quattro caccia, mentre numerosi elicotteri russi sono già stati forniti ad Haftar dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, spesso grazie a finanziamenti sauditi. Sono loro gli alleati di ferro dell’uomo forte in Cirenaica, ma la predominanza russa – finora demandata ai mercenari del gruppo Wagner e alla fornitura di batterie contraeree Pantsir – è ora espressa dal controllo diretto di questi otto caccia: i piloti sono infatti mercenari siriani, emiratini e bielorussi, debitamente addestrati dalle Forze armate del Cremlino. Una guerra per procura, con migliaia di mercenari siriani che, per circa mille dollari al mese, vanno a combattere con Haftar: l’11 maggio il volo Svw 351 della compagnia Ali del Levante, decollato da al-Bayda, ha portato ad Haftar un altro centinaio di presunti miliziani siriani arruolati nella Wagner. La discesa ufficiale in campo – o meglio nei cieli – della Russia, le attribuisce il ruolo di “master mind” della Libia orientale. Anche Fayez al-Sarraj dispone, nelle basi di Mitiga e Misurata, di una quindicina di jet sovietici, dei ferri vecchi della Guerra fredda, rinforzati dall’arrivo dei droni turchi, assieme ad equipaggiamenti e uomini della compagnia privata Sadat.

Sarebbero, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, già 9.600 i mercenari turchi o siriani arruolati dai turchi, mentre oltre 3mila in sarebbero addestramento nei campi siriani nella zona sotto il controllo turco. Tutte forze militari ed equipaggiamenti che Recep Tayyip Erdogan ha inviato a sostenere il Governo di accordo nazionale di al-Sarraj. Ma questo ha un alto costo politico. E per tutto il Mediterraneo. L’invito del ministro degli Esteri Sergeij Lavrov, nelle stesse ore in cui inviava gli otto jet, a «riprendere il processo politico» per giungere a una tregua in Libia, dopo la telefonata al collega turco Mehmet Cavusoglu, suona come l’avvio di una spartizione del Paese. Si ripropone così, a pochi chilometri dalle coste italiane, il modello della spartizione della Siria, in particolare della regione di Idlib, pianificato lo scorso ottobre al vertice di Sochi, presente anche l’Iran.

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi di recente a Malta. Ieri le telefonate del segretario di Stato Usa Mike Pompeo a Fayez al-Sarraj, e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio al turco Cavusoglu hanno caldeggiato una «soluzione politica». Sempre auspicabile un cessate il fuoco, ma ora ci sono attori più aggressivi e armati attorno alla “torta libica”. Non solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo. Il 27 novembre, assieme all’accordo militare con Sarraj, Erdogan ha firmato un memorandum che ha dato il via alle trivellazioni turche nel Mediterraneo orientale. Attività che Francia, Grecia, Cipro, Egitto ed Emirati Arabi hanno più volte denunciato come «illegali».

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