venerdì 2 giugno 2017
Il 5 giugno di cinquant'anni fa la guerra che ridisegnò confine ed equilibri del Medio Oriente: un attacco preventivo contro le minacce di Nasser, divenne una disfatta per Egitto, Giordania e Siria
Il generale Motta Gur e le sue truppe scrutano la Città Vecchia di Gerusalemme prima di sferrare l'attacco (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Il generale Motta Gur e le sue truppe scrutano la Città Vecchia di Gerusalemme prima di sferrare l'attacco (Ufficio stampa del Governo israeliano)

COMMENTA E CONDIVIDI

Prima di quel 5 giugno di 50 anni fa, le prime truppe egiziane erano già penetrate nel Sinai, esigendo il ritiro dei caschi blu dell’Onu dalle sue frontiere. Dopo la crisi del canale di Suez nel 1956 la penisola, come la Striscia di Gaza, era stata occupata dall’esercito israeliano, per passare poi sotto il controllo di un contingente delle Nazioni Unite. La notizia di un presunto concentramento di truppe israeliane al confine con la Siria, dopo un duello aereo sul lago di Tiberiade fra l’aviazione israeliana e quella di Damasco, era l’artificiosa motivazione. Una seconda provocazione era stata l’annuncio, davanti al segretario generale delle Nazioni Unite U Thant giunto subito al Cairo per una mediazione, della chiusura dello stretto di Tiran e quindi del Golfo di Aqaba agli israeliani. “Sharm el-Sheik significa lo scontro con Israele”, aveva dichiarato il 26 maggio Nasser. La strategia del rais del Cairo era di isolare Israele per dimostrare platealmente di comandare l’intera regione. Nella sostanziale incuranza delle cancellerie occidentali, il 30 maggio la Legione araba giordana si pone sotto il comando egiziano, come pochi giorni più tardi faranno lo stesso gli iracheni: l’incursione via terra in Israele sembrava già pronta.

Nasser, pensano oggi in molti, in realtà non vuole la guerra, ma semmai dimostrare di essere il leader capace di catalizzare i sentimenti anti-sionisti degli arabi. Israele vive in quei mesi - complice la ripresa della guerriglia palestinese – in un clima di isteria provocato dal timore dell’accerchiamento e di un nuovo olocausto. Questo persuase la maggioranza del governo, e soprattutto il “falco” Moshe Dayan, ministro della Difesa, a muovere un attacco preventivo, nonostante la riluttanza del premier Levi Eshkol.

Così alle 7 e 10 del 5 giugno in Israele prende avvio l’”Operazione Focus”. Israele lascia appena una decina di caccia a difesa del suo territorio e in sole tre ore annienta a terra l’aviazione egiziana assicurandosi il controllo dei cieli mentre le truppe di Tzahal irrompono nel Sinai.

In neanche due ore gli aerei israeliani, sorvolando il Sinai a bassissima quota in diverse direzioni, distruggono oltre la metà dei 420 aerei egiziani e un terzo dei piloti del Cairo. Solo nove velivoli israeliani abbattuti in una dimostrazione di superiorità tecnica e tattica schiacciante. “L’aviazione egiziana è distrutta”, afferma la mattina di quello stesso 5 giugno il generale Yitzhak Rabin. L’attacco a sorpresa di Israele nel Sinai scatena la reazione di Siria, Giordania e Iraq. Amman bombarda la Cisgiordania e Gerusalemme Est: quello che doveva essere un attacco a sorpresa, con lo scopo di allentare la morsa egiziana, ha scatenato una nuova guerra arabo-israeliana dalle imprevedibili conseguenze politiche.

Sul terreno la campagna di Israele prosegue con incredibile facilità: il secondo giorno di guerra il Sinai è praticamente tutto nelle mani di Israele, con il generale egiziano Amer che ordina la ritirata oltre il canale di Suez.

Al mattino del 9 giugno l’intero Sinai è diventato israeliano, con gli egiziani in fuga che avevano abbandonato più di 600 carri armati, lasciando sul terreno circa 10mila morti e 12mila prigionieri. Nasser, dopo aver accusato l’Occidente per il sostegno a Israele, usa la parola “Naksa”, disfatta, per descrivere la sua sconfitta e dare le dimissioni.

Manca un vero coordinamento fra i vari fronti arabi e ben presto anche Amman batte in ritirata. L’esercito israeliano entra facilmente in Cisgiordania, conquista Gerico e Gerusalemme Est. Verso le 10 di mattina del 7 giugno il generale israeliano Motta Gur dichiara alla radio: “Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”. Le lacrime di commozione di numerosi soldati segnarono il momento simbolicamente più importante di quella campagna militare. La Giordania firma la resa mentre il ministro della Difesa Dayan e il capo di Stato maggiore Rabin visitano la città vecchia.

Resta da sconfiggere solo la Siria, con le sue truppe asserragliate nell’altipiano del Golan. Un nemico ostico anche per il forte legame con l’Urss, tanto che un falco come Dayan preferisce porre il veto a questa offensiva. Ma la pressione degli abitanti dei kibbutz di frontiera e dei militari è decisiva anche in questo attacco, nonostante Damasco abbia già accettato un cessate il fuoco dell’Onu. L’offensiva del Golan inizia il 9 giugno e nel pomeriggio del 10 l’altopiano è conquistato, mentre Tzahal ferma la sua avanzata a Quneitra, a 60 chilometri da Damasco.

La sera stessa di quel 10 giugno, richiesto con insistenza dal Consiglio di Sicurezza, il cessate il fuoco è effettivo sui tre fronti. Il piccolo Israele, come Davide, al prezzo di 676 molti e quasi 3mila feriti aveva sconfitto i Golia egiziani, giordani e siriani che lasciavano sul terreno circa 15mila uomini, centinaia di carri, la quasi totalità della loro aviazione e conquistato oltre 42mila chilometri quadrati di territori. Gerusalemme “riunificiata” ufficialmente annessa dalla Knesset il 29 giugno, diventava il simbolo di una pace che ora si vuole cercare più con la diplomazia che con le armi. Una trattativa ancora aperta, come quella sullo status di Gerusalemme, ma in un Medio Oriente che dopo quei sei giorni di 50 anni fa ha cambiato volto.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: