venerdì 18 marzo 2022
Nella città occupata restano sacche di resistenza L’incubo della carestia indotta dagli «orchi» è palese. Regna il Comitato filo-russo di salvezza per la pace
La protesta dei cittadini di Kherson che hanno sfilato con una lunga bandiera ucraina contro l'occupazione russa

La protesta dei cittadini di Kherson che hanno sfilato con una lunga bandiera ucraina contro l'occupazione russa - Reuters

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«Voglio il caviale rosso, altrimenti non lo prendo». È la voce di un abitante di Kherson, la città portuale alla foce del Dnepr che sprezzantemente rifiuta un pacco di alimenti fornitogli dagli occupanti russi. Potrebbe sembrare il piano B, ma il sospetto è che proprio questo fosse lo scopo dell’invasione dell’Ucraina: dividerla in due, la zona a ovest del Dnepr con Kiev e Leopoli da una parte, l’est con Chernihiv, Kharkiv, il Donbass, Mariupol, Zaporizhzhja, Mykolajv, Kherson e – dulcis in fundo – Odessa, ai vincitori. Il modello è quello siriano, con Damasco e ampi territori in mano a Bashar al-Assad e una vasta provincia a nord, quella di Idlib, lasciata nelle mani dei ribelli. Il risultato in entrambi i casi rimane quello di scongiurare una guerra casa per casa, con perdite troppo pesanti anche per la Russia, che pure manipola e controlla manu militari l’opinione pubblica. Se il piano B è il vero disegno (o magari il disegno subentrato al mancato Blitzkrieg che avrebbe dovuto occupare e portare alla resa Kiev in tre giorni), la manovra a tenaglia dell’armata russa è chiarissima: occupare l’intera costa ucraina del Mar Nero. Il primo effetto sarebbe quello di ridurre l’Ucraina dimezzata a monca entità senza più armi, mezzi e possibilità di commercio marittimo con il resto del mondo, una nazione spogliata della sua identità e della possibilità futura di nuocere, visto che il martellamento russo colpisce di preferenza fabbriche e installazioni militari allo scopo di rendere inoffensiva per decenni la capacità bellica di Kiev.


Lo snodo che ha reso possibile questo progetto è stato la resa di Kherson, città chiave del sud, fondata da Caterina la Grande per ricoverarvi la flotta del Mar Nero e un tempo rubinetto idrico della Crimea, chiuso nel 2014 all’indomani dell’annessione da parte di Mosca di cui ieri il Cremlino ha celebrato l’anniversario. Una rappresaglia invero assai poco umanitaria: la Crimea riceveva l’acqua del Dnepr attraverso il Canale del Nord, Kiev dapprima l’ha bloccata, quindi ha costruito una diga nell’oblast di Kherson. E proprio l’acqua (il Dnepr soddisfaceva per l’85% il fabbisogno della Crimea) era diventata merce di scambio (e di tensione) fra Zelensky e Putin. Il primo pretendeva di venderla ai russi per dissetare la terra arida della Crimea. Il secondo ha preferito riprendersela direttamente con i carri armati. Caduta Kherson, il nome deriva dalla greca Chersoneso Taurica, la strada per Odessa è spianata. A pagarne il conto – la nemesi, per i russi – è ora la terza più popolosa e orgogliosa città dell’Ucraina, dove gli «orchi» (così il sindaco di Kherson ha chiamato gli invasori) hanno rimosso la bandiera giallo-blu dalla sede regionale dell’oblast e da una settimana c’è un “Comitato di salvezza per la pace e l’ordine” per governare la città in questa fase di guerra, di cui fanno parte politici e personaggi locali filo-russi.


Ora però Kherson è una provincia che rapporti sempre più allarmati configurano come prossima a una catastrofe umanitaria, dal momento che non è possibile farvi giungere aiuti di alcun tipo. Peraltro la morsa russa sui i porti ucraini del Mar Nero mette in luce il rischio di una carestia per molti Paesi e in prospettiva sulla sicurezza alimentare mondiale, dal momento che Russia e Ucraina insieme esportano oltre il 30% di frumento globalmente e l’80% dell’export globale passa per Odessa. «A causa dell’occupazione temporanea degli insediamenti nella regione, soprattutto quelli piccoli, la popolazione fa i conti con una grave carenza di medicine e talvolta di generi alimentari», ha detto il commissario per i diritti umani del Parlamento di Kiev, Lyudmyla Denisova. «Non ci sono farmaci, i supermercati sono vuoti. La mattina usciamo a caccia di cibo, non con tanta varietà, ma ci accontentiamo – ha dichiarato un italiano intrappolato a Kherson –. Mia moglie ha problemi di tiroide e deve prendere un medicinale che la aiuta a stare meglio, ma nessuna farmacia ce l’ha. Qualche farmacia ancora aperta c’è, ma ci sono file lunghissime. Abbiamo dato loro i nostri numeri di telefono, così possono contattarci se arriva qualcosa, ma non può entrare e uscire nulla».
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