giovedì 23 luglio 2020
Khunav e i suoi tre figli, ritratti il 9 agosto 2014 in fuga dal Daesh sono il simbolo del genocidio della minoranza. «Ora viviamo tutti vicino ad Hannover, al sicuro»
La famiglia-simbolo dell'esodo yazida: ecco come vive ora
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Saad aveva tre anni ed era in braccio. Dalia sei, ed è la maggiore, a destra. Zeena, di un anno più piccola, è quella a sinistra tutta impolverata. Alle spalle, le tracce fuori fuoco di un esodo che per loro sarebbe durato anni. «Ogni volta che guardo quella foto rivivo il giorno in cui siamo fuggiti. Non posso dimenticare quel che è accaduto laggiù. Vedo la foto e mi sembra di essere ancora in fuga».

La famiglia yazida in fuga dall'Iraq settenrionale, nel 2014

La famiglia yazida in fuga dall'Iraq settenrionale, nel 2014 - Reuters

La donna con lo sguardo dritto e i tre bambini, insieme a migliaia di altri sfollati in cammino per mettersi in salvo dalla furia del Daesh, è viva: si chiama Khunav Ali Qasim, oggi ha 31 anni, e quel giorno mentre camminava a piedi in mezzo alla disperazione più assoluta, senza cibo e acqua, non immaginava che sarebbe diventata il simbolo, nel mondo, del genocidio della comunità yazida. Centinaia di volte da quel 9 agosto 2014, le testate di tutto il mondo hanno rappresentato la minoranza religiosa a cui appartiene ma soprattutto il tentativo di cancellarla dal Sinjar, in Iraq settentrionale, attraverso la foto di Rod Said per l’agenzia Reuters. La loro identità è stata svelata dopo che, nei giorni scorsi, qualcuno ha fatto girare su Twitter due foto false di una donna con tre bambini spacciandoli per i protagonisti del celebre scatto.

Chi li conosceva ha poi pubblicato la vera foto della famiglia attuale, affiancata a quella del 2014: la comunità, anche se sparsa nel mondo, tra Stati Uniti, Australia, Svezia e appunto Germania, ha legami che non si spezzano con la distanza e che sono rafforzati dalla tragedia. In quelle ore, sei anni fa, morivano giustiziati nelle fosse comuni migliaia di uomini e altrettante donne venivano rapite per diventare schiave nel nome di un ottuso fanatismo organizzato, per la prima volta nella storia del terrorismo jihadista, nella forma di uno Stato in espansione.


La mattina del 3 agosto 2014 centinaia di miliziani del Daesh assaltano la città di Sinjar e i villaggi limitrofi partendo da Tal Afar e Mosul, la città del nord iracheno divenuta anch’essa simbolo della persoecuzuione religiosa nei confronti dei cristiani. L’area di Sinjar, costellata da fattorie, è la terra di origine della minoranza religiosa yazida, una comunità pacifica integrata e da sempre solidale con le minoranze cristiane, kakai, sciite, turcomanne.


Ma le cifre e l’asprezza dei fatti, il giorno in cui Said e gli altri giornalisti documentavano quel flusso di profughi, ancora non si conoscevano. «Ricordo solo la paura perché dicevano che Daesh era lì vicino – spiega Zeena –. Avevo tanta fame e sete, e mi faceva male un piede. E ricordo anche gli amici che avevo intorno». Il padre, Said Yusuf Baji faceva il muratore e racconta le peripezie per mettersi in salvo, dopo aver abbandonato il minuscolo villaggio di Girzark alle due del mattino del 3 agosto: «Non sono nello scatto perché ero più avanti per cercare qualcosa da mangiare. Dal 3 al 9 agosto siamo stati sulla cima della montagna di Sinjar. Quando ci hanno fotografati andavamo in Siria attraverso un varco sicuro a Duhola».

È stato un viaggio a piedi di una notte e un giorno per rimanere solo un giorno e una notte nel campo profughi a Derik, prima di decidere di tornare nel Kurdistan iracheno: la guerra in Siria era più spaventosa di quella nel Sinjar. «In Iraq abbiamo dormito per due settimane nel parcheggio dell’auto di una famiglia che ci ha dato cibo e vestiti. Poi è arrivata la notizia che la Turchia apriva un valico: lo abbiamo attraversato in 3.000 quel giorno, sempre a piedi». Quando, un anno e mezzo dopo, arrivò la notizia che la Germania avrebbe accolto i profughi della guerra in Siria, la famiglia Baji diventò una delle tante che affrontano la rotta migratoria più violenta, quella Balcanica.

«Sei giorni dopo essere arrivati a Istanbul, chi organizzava ci ha chiamato per attraversare il mare. Dopo cinque ore di viaggio la Guardia Costiera greca ci ha preso e portato a Mitilene per registrarci – spiega Said –. Ci hanno aiutato due iracheni che vivevano in Europa e aiutavano quelli come noi: un cristiano, Daoud Chacho e un altro iracheno ebreo. Hanno pagato 400 euro per farci raggiungere la capitale, per ritirare i documenti e anche i biglietti per andare in autobus in Macedonia. Mentre viaggiavamo, però, è arrivata la notizia della chiusura del confine. Allora ci siamo andati a piedi ma la polizia bloccava tutti».

Said, la moglie e i tre figli sono rimasti per tre mesi tra le piccole tende alla frontiera, con la speranza di passare. Le Ong presenti non bastavano: «Era freddo, abbiamo avuto problemi di salute, ci mancavano servizi e cibo». Chacho interviene di nuovo e li fa trasferire, insieme ad altri 1.700 yazidi con 8 autobus, al campo di Petra. Sette mesi dopo passano a quello di Volvi. Era il 2017. «Un giorno è arrivata la lista di persone che poteva partire in aereo per la Germania. Sono stato ad Atene un mese per completare la domanda. Adesso viviamo tutti vicino ad Hannover. Ora siamo al sicuro».

La famiglia yazida in Germania, oggi

La famiglia yazida in Germania, oggi - Reuters

L’ultima figlia di Said e Khunav, che stanno imparando il tedesco, si chiama Lisa ed è nata tre mesi fa. Zeena non vuole più tornare in Iraq, ha i suoi nuovi amici e poi la loro casa è stata bombardata. «Ogni anniversario del genocidio ci radunavamo e portavamo le foto di quel giorno. Quest’anno no, c’è il coronavirus e poi ho una bimba piccola», dice Khunav. Nella foto scattata ad Hannover non sorride, non le sembra vero che quella fuga sia finita.

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