I misteri del nucleare di Kim. «Così la Corea del Nord è rispettata»

Dentro il complesso chimico di Hamhung, dove l'uso civile dell'atomica si accoppia all'uso militare. Lavoratori e studenti d'accordo: vogliamo contribuire al progresso di questo Paese
August 13, 2025
I misteri del nucleare di Kim. «Così la Corea del Nord è rispettata»
Ansa | Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un assiste al lancio di un missile a capacità nucleare in un poligono di Pyongyang
Il professore di Fisica sorride mentre indica la lavagna. «Il nostro programma nucleare ci ha permesso di diventare una nazione rispettata da tutto il mondo» dice con orgoglio genuino. Non è retorica di regime: ci crede davvero. L’atomica non spaventa nessuno in Corea del Nord. Dalle guide turistiche ai commercianti, dai docenti agli operai: tutti parlano del programma nucleare come di una necessità vitale. «È la nostra assicurazione sulla vita» spiega ad Avvenire un giovane ingegnere durante una passeggiata per le strade di Pyongyang.
L’idea che le armi atomiche siano indispensabili per la sopravvivenza nazionale è diventata verità assoluta. E non solo perché la verità, qui in Corea del Nord, appartiene solo alla famiglia Kim, ma perché – e questo è il capolavoro che è riuscito a costruire Kim Jong-un – la consapevolezza che il proprio Paese sia oggi temuto e rispettato è motivo di orgoglio per ogni nordcoreano.
Pochi giorni dopo, Avvenire ha la possibilità di entrare nel complesso chimico di Hamhung. Ufficialmente vi si producono fertilizzanti, ma è facile capire che c’è dell’altro. Sistemi di sicurezza sproporzionati, controlli agli accessi degni di un sito militare, infrastrutture elettriche sovradimensionate. È chiaro che Hamhung è un impianto “dual-use”, dove l’uso civile si accoppia all’uso militare. L’impianto ha acquistato notevoli quantità di litio, ufficialmente usato per produrre batterie per mezzi agricoli, ma che può essere utilizzato (nel suo isotopo litio-6) anche per produrre trizio per bombe termonucleari. Il giovane responsabile della produzione guida la visita nei reparti autorizzati. Sorride molto, risponde poco. Alla domanda sui sistemi di trasporto specializzati che si intravedono, cambia discorso. «Qui facciamo solo fertilizzanti per l’agricoltura socialista», ripete come un mantra. È l’arte asiatica del dire senza dire. Gli operai indossano tute speciali, più sofisticate del necessario per chi dovrebbe maneggiare solo composti chimici agricoli. E l’isolamento delle strutture racconta una storia diversa da quella ufficiale. È un puzzle industriale dove ogni pezzo suggerisce un quadro più complesso.
All’Università di Scienza e Tecnologia si incontrano studenti brillanti. Studiano fisica nucleare avanzata, ingegneria dei reattori, gestione di materiali radioattivi. «Per il settore civile» precisano sempre, quasi fosse un riflesso condizionato. Ma le competenze sono trasferibili, ovviamente. Il livello è impressionante, superiore a ogni aspettativa. Questi ragazzi parlano di neutroni e isotopi con la stessa naturalezza con cui i loro coetanei occidentali discutono di social media. Sorseggiando un tè verde, in mensa, un ventitreenne spiega i cicli del combustibile nucleare e dichiara: «Voglio contribuire al progresso del mio Paese».
Anche nelle scuole superiori si respira questa atmosfera. Le materie tecniche hanno priorità assoluta. Matematica, fisica, chimica dominano i curricula. È un investimento a lungo termine che va ben oltre le esigenze immediate del programma attuale. Una generazione intera cresce pensando in termini di atomi e particelle. «Ogni volta che America e Sud Corea fanno esercitazioni militari, noi dobbiamo essere pronti» spiega una guida turistica mentre visitiamo Panmunjom. Per lei, le manovre congiunte Usa-Corea del Sud non sono routine militare bensì minaccia esistenziale. I missili Thaad schierati al confine? «Preparativi per attaccarci», dice sicura.
Attenzione: non è propaganda imposta dall’alto. È una visione del mondo costruita su decenni di narrazione coerente, alimentata da elementi storici reali: la guerra di Corea mai formalmente conclusa, le basi Usa sparse per l’Asia, le sanzioni che mordono l’economia quotidiana. Ogni provocazione esterna, vera o percepita, conferma la teoria.
«Vede quelle montagne?» indica un anziano contadino mentre attraversiamo la campagna verso Kaesong. «Durante la guerra, gli americani le hanno bombardate per mesi. Mio padre si nascondeva nelle grotte». La memoria collettiva è viva, tramandata di generazione in generazione come un patrimonio genetico di diffidenza.
In tutto il Paese, nessuno critica il programma nucleare. Nessuno si lamenta dei costi. L’atomica è diventata parte dell’identità nazionale come il kimchi (piatto a base di verdure fermentate) o il monte Paektu. «Senza le nostre armi, saremmo già stati invasi», confida un militare mentre mostra al binocolo la Zona Demilitarizzata. Le sanzioni internazionali? «Dimostrano che il mondo ci teme. Significa che siamo forti». A Kaechon, venti chilometri da Yongbyon, in un complesso che produce alluminio, quando chiediamo a un analista chimico cosa pensa delle tensioni internazionali, la risposta sottintende che la domanda è scontata: «Certo che dobbiamo difenderci. Siamo un piccolo Paese circondato da nemici». Poi aggiunge, sorridendo: «Ma abbiamo l’atomica. E grazie a Kim Jong-un ora ci rispettano».
È questo consenso genuino il vero fondamento del programma nordcoreano. Un consenso che attraversa tutte le classi sociali, che rende inefficaci le pressioni esterne perché trasforma ogni sanzione in conferma della propria narrazione. Il ciclo è perfetto: più pressioni dall’esterno, più coesione interna. Come un processo fisico. E una certezza emerge chiara: il nucleare nordcoreano non è solo scelta della leadership. È progetto nazionale, radicato nella società, sostenuto da un popolo che vede nell’atomo la propria sopravvivenza. Un programma che ha già vinto la battaglia più importante: quella per i cuori e le menti della propria gente.

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