Quell'abisso che si apre con la sentenza su Paderno
I giudici non hanno riconosciuto neppure il vizio parziale di mente nel ragazzo che ha ucciso il fratellino e i genitori. Ma senza spiegazioni davanti a noi si spalanca il baratro di un Male ignoto

Diteci, per carità, che vi siete sbagliati. O anche solo che, nel sentenziare sul delitto di Paderno Dugnano, voi magistrati minorili avete tenuto conto esclusivamente di ragionamenti giuridici finissimi, che distinguono tra lucidità al momento del delitto e cause pregresse. Spiegateci, per favore, nelle motivazioni della sentenza emessa venerdì sera perché non avete riconosciuto al ragazzo colpevole di quel triplice, tremendo delitto, il vizio anche solo parziale di mente. Quello che pure era stato riconosciuto non dal perito di parte ma della stessa procura.
Spiegatecelo, fateci capire, perché molto al di là delle questioni tecnico-giuridiche, del computo della pena da comminare a quel ragazzo, ciò che a tutti noi risulta assolutamente necessario è individuare il perché sia avvenuta quella strage. O almeno un perché plausibile. Un come può accadere credibile che un ragazzo di 17 anni infierisca a coltellate sul fratellino di 12 anni, sul papà e sulla mamma con i quali non aveva un rapporto fortemente conflittuale. Anzi. Al di là di qualche contrasto fisiologico per un adolescente, infatti, quella che i conoscenti e i parenti descrivono concordemente era una famiglia unita, aperta, amorevole. Nella quale ci si voleva bene, cioè si voleva l’uno il bene dell’altro. Una famiglia, fatta anche di nonni e cugini che, ancora oggi, dopo quel che di terribile è successo nella villetta di Paderno Dugnano, non ha abbandonato al suo destino il ragazzo che ha ucciso.
Perché, se non c’erano pregressi di violenza in quel nucleo, non si sono riscontrate dipendenze da droghe o altro nel ragazzo e non viene riconosciuto dal tribunale neppure un parziale vizio di mente - che è come dire che non c’era un disturbo psichiatrico o un disagio psicologico importante - non è solo il destino del colpevole che diventa tremendamente incerto, ma quello di tutti noi. È davanti a noi - adulti, genitori, giovani, figli – che quella sentenza apre un abisso, una voragine dell’incomprensibile, che ci spinge a guardare la realtà come dall’orlo di un baratro. Senza poter capire, senza poterci aggrappare a una motivazione razionale resta solo il buio profondo dell’angoscia dell’ignoto, di un Male che possiede senza neppure darne segnali all’esterno, come un virus asintomatico. Resta solamente, senza risposta e terribilmente angosciante, la domanda: cosa arma la mano di un 17enne e gli fa colpire decine di volte la carne inerme di un bambino, dei propri genitori, incurante del sangue a fiotti, delle urla stupite delle vittime, se non ha un vizio di mente? E quante altre volte può ripetersi ciò che è accaduto?
È vero, i magistrati nei tribunali sono tenuti a seguire solo le logiche giuridiche, devono cercare di fare giustizia per quanto sempre imperfetta. Non devono dare risposte sociologiche o mediche alla società, non è il loro compito, anche se noi ce lo aspettiamo da loro e ne avremmo estremo bisogno. Paradossalmente, vorremmo che fosse l’irrazionalità della follia a garantire serenità alla nostra razionalità. Per metterci tutti al riparo con il pensiero che la “pazzia” è qualcosa di altro e di lontano dalla nostra “normalità”. Ma anche perché così potremmo pensare che – forse - sarebbe più facile per quel ragazzo assassino, oggi appena 18enne, essere curato con farmaci e terapie, essere aiutato a riemergere dal suo di abisso, ritrovare un (possibile) equilibrio. Perché siano 20 come prescritto dalla sentenza o 10 o 15 gli anni che dovrà passare in carcere, non possiamo pensare che non siano anche un nostro problema, che la sua vita dietro le sbarre non ci riguardi: “si butti la chiave” e via. Dobbiamo pregare e impegnarci e far sì in qualche modo che quel ragazzo incontri in carcere adulti in grado di ascoltarlo, di accompagnarlo, di rifondere in lui quella speranza che, sul finire dell’estate scorsa, ha reciso anzitutto in se stesso, uccidendo chi lo amava.
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