Quando i giovani pensano alla morte (e riscoprono la vita)
Non è solo un tema degli adulti o dei filosofi, anche ragazze e ragazzi pensano alla fine. Una riflessione alla ricerca del significato dell'esistenza

Continua il nostro viaggio di esplorazione del mondo interiore dei giovani. Nel precedente contributo la riflessione si è soffermata sul tema del dolore, aspetto molto vivo nei giovani e al tempo stesso ben poco riconosciuto da un mondo adulto che tende a considerare la giovinezza come la stagione dell’allegria e della spensieratezza. Inaspettata è anche la percezione che i giovani hanno della morte. Voglio avviare la riflessione su questo tema ascoltando due testimonianze: «Ho paura della morte perché tutto ciò che costruisco scomparirà e se da una parte mi rassicura sapere che sono solo un granello di sabbia in un enorme spiaggia, dall’altra mi spaventa e mi fa chiedere se veramente conto qualcosa». E la seconda: «la morte e cosa ci sia dopo la morte è assolutamente la domanda che mi faccio di più e che mi agita di più». Siamo abituati e pensare che la vita giovanile sia tutta proiettata verso il futuro; si tratta di uno stereotipo che ha poco a che vedere con i giovani reali, che invece sono pensosi e inquieti; lo sono anche quando mascherano i loro pensieri dietro atteggiamenti spavaldi e superficiali. Che poi in cima alle loro domande vi sia quella sulla morte, sorprende. Si sarebbe portati a pensare che per i giovani quello della morte sia l’ultimo problema; si dice: «hanno tutta la vita davanti!». Ma tutta l’esistenza non basta a colmare il desiderio di vita e di pienezza di nessuno, nemmeno di chi ne è agli inizi. Il modo di pensare alla conclusione dell’esistenza è ciò che illumina anche le scelte del presente e il modo di affrontare e progettare il proprio futuro. L’attenzione si sposta così dalla morte alla vita e al suo senso. Molte sono le testimonianze di giovani che dalla consapevolezza della morte sono portati a interrogarsi sul senso della vita, che appare nella sua preziosità, ma anche nella sua fragilità e delicatezza. Dice una giovane che l’esperienza della morte l’ha portata a interrogarsi sul senso della vita, «sicuramente mi ha dato nuovi occhi per vedere la mia vita». E un giovane diciannovenne dice: «non so se la vita abbia un senso; per me il senso della vita è iniziare a pormi la domanda su di esso».
I giovani di oggi sono quelli che sono stati toccati dalla pandemia, quelli che hanno fatto lezione a distanza o che si sono laureati online, da casa. Sono quelli che hanno visto la morte in faccia, magari quella dei nonni, o dei vicini di casa. Che riflesso ha avuto tutto questo su di loro? Si sono sentiti costretti a fare i conti con la realtà della morte, quasi sorpresi dalla sua realtà concreta. Dice un giovane: «le persone muoiono. Sappiamo tutti quanti che moriamo, ma quanti ne muoiono ogni giorno! E quindi si muore, e questo ci ha fatto ricordare che non siamo immortali, che anche in molti paesi sviluppati si può morire. Mi ha ricordato questa consapevolezza. Non si è immortali». «La consapevolezza della morte -dice questa ventenne- a me fa mettere un po’ i piedi a terra, tornare un po’ alla realtà, perché per me noi giovani siamo molto concentrati nella realizzazione del nostro futuro quindi come costruirci un futuro, un lavoro, una famiglia, e però sentirmi la morte così vicina e possibile fa prendere atto della realtà.» È come se la morte ponesse i giovani di fronte alla serietà della vita e li portasse e interrogarsi su quali sono i valori per i quali vale la pena vivere: «Pensare che si può morire -dice questo giovane- cambia la prospettiva della vita, si pensa sempre che si ha più tempo per fare le cose, per stare vicini. Io sono proiettato sul mio progetto, mi devo realizzare, devo fare questo, quest’altro. La morte cambia questa cosa, ti dice: ‘guarda che il morire c’è, può capitare anche a te domani, non c’è altro tempo. Se tu domani morirai non avrai altro tempo. Cadrà un po’ tutto quello che ti sei costruito e rimarranno solo le cose importanti veramente, il tempo passato in famiglia, passato ad aiutare le persone …». Dunque, che cosa vale di fronte alla prospettiva della morte? Che peso hanno gli affetti, le persone, gli impegni? E quali impegni? Le cose importanti non sono i soldi, né il successo. È come se i giovani reinterpretassero a modo loro le parole di Qoelet: «vanità delle vanità, tutto è vanità». Davanti alla morte si aprono gli interrogativi più seri sulla vita e su come vivere. Il carattere repentino della morte che ha colpito molte persone nella recente esperienza della pandemia ha reso i giovani consapevoli del limite. Nella stagione della vita in cui si è portati a sentirsi un po’ immortali e onnipotenti, la morte è lì a dire che nella vita esistono dei limiti e ne esiste uno di invalicabile. Perché morire? perché la vita è fatta per avere termine? perché siamo destinati a non lasciare nulla di noi se non le nostre ceneri?
Il venir meno di una prospettiva di vita oltre la morte esaspera le domande; a chi ha abbandonato la fede appare chiaro che quella scelta ha creato una frattura, ha reso più indecifrabile questa questione. Dice una giovane diciannovenne: «arrivo a chiedermi se effettivamente esiste qualcosa dopo la morte, ed è la cosa che mi angoscia di più e che mi ha angosciato di più dopo essermi distaccata dalla comunità religiosa»; e un’altra: «Mi spaventa pensare che magari non ci sia più niente». Senza la fede, la morte è un enigma più indecifrabile. I giovani che hanno abbandonato la Chiesa e il suo insegnamento sentono che di fronte alla morte manca loro la prospettiva della fede, come nota questa giovane: «questo è l’argomento in cui la fede un po’ mi manca, nel senso che è un po' difficile pensare che ci sia una vita dopo». Anche il pensiero della morte dei propri cari è più doloroso in questa prospettiva. Una ragazza dice di avere una famiglia molto unita, nella quale ha ricevuto tanto amore, e si chiede: «quando moriranno i miei nonni come farò?». Affrontare la questione della morte in una prospettiva di assenza della fede, o di abbandono di essa, rende il pensiero della fine più crudo e drammatico. Il contenuto del dramma non è tanto la morte in sé, quanto piuttosto la prospettiva del salto nel buio che la morte comporta quando è vissuta senza la speranza cristiana. Certo la fede, con la sua apertura ultraterrena, fa la differenza alleviando il peso dell’angoscia, così come la mancanza di essa la accresce. Una ragazza dice che la possibilità di credere in una vita dopo la morte la aiuterebbe a sentirsi più serena, ma -conclude- «non mi va neanche di forzarmi a credere in una vita ultraterrena per sentirmi più serena. Non mi va che sia qualcosa di forzato. Cioè, di attaccarmi a quello solo per essere più serena».
Il modo con cui nella società di oggi la morte viene vissuta, il silenzio da cui è accompagnata, non aiuta le nuove generazioni ad affrontare serenamente le questioni che essa pone; a prendere atto del confine oltre il quale la vita non può andare. Il modo accurato con cui oggi la fine della vita viene nascosta è il segno che esso costituisce un tabù per gli adulti, finendo con il diventarlo anche per i giovani. Ma il silenzio su temi così vitali non significa che essi non esistano e non inquietino; per le nuove generazioni significa aggiungere un altro aspetto alla solitudine con cui affrontano la vita. Il tema della morte chiede a tutti una nuova considerazione della vita, del limite creaturale e del suo significato, della serietà dell’esistenza e delle scelte che le danno forma concreta. Si tratta di un tema certo impegnativo per tutti; ma forse è uno di quelli che possono aiutare tutti - giovani e adulti insieme - ad affrontare la vita nella sua verità.
(8 - continua)
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