Perché il Papa va in Medio Oriente. Sulla rotta della pace

L’annuncio della prima visita internazionale di Leone XIV, nel Libano coinvolto nella guerra (arrivando da Nicea, in Turchia), è la conferma di un impegno
October 8, 2025
Perché il Papa va in Medio Oriente. Sulla rotta della pace
Papa Leone XIV in piazza San Pietro
«Io impiegherò ogni sforzo». Meno di una settimana dopo la sua elezione, incontrando le Chiese orientali (molte delle quali martiri di guerre e violenze che lacerano Medio Oriente, Est Europeo e Balcani) papa Leone aveva assunto in prima persona l’impegno di prodigarsi «perché questa pace si diffonda»: la «pace di Cristo», quella «disarmata e disarmante» annunciata a nome del Risorto dalla Loggia di San Pietro come un programma fondativo del pontificato; una pace che «non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita», è «riconciliazione, perdono, coraggio di voltare pagina e ricominciare». E per questa sua qualità risolutiva esige che si prodighi «ogni sforzo». Anche personale.
Ora che è ufficiale il viaggio di Leone in Libano – il suo primo –, dopo la tappa turca di Nicea lungamente sognata da Francesco, quelle parole tornano a risuonare con tutta la loro forza, in un contesto che se a metà maggio era già angosciante oggi si è fatto drammatico, al punto che lo spiraglio di dialogo appena aperto pare quasi un prodigio, quanto illusorio o realistico lo vedremo. E proprio mentre Hamas e Israele iniziano a parlarsi per far cessare un incubo durato due anni, l’annuncio del Papa che dal 30 novembre al 2 dicembre metterà piede nella terra mediorientale impastata di dolore e sangue versa una goccia di speranza nella voragine di odio generata da una guerra dissennata e crudele. Porterà con sé, Leone, l’immagine di una cristianità che si sarà appena ritrovata in Turchia, nel luogo delle origini, dove – ancora indivisa – 1.700 anni fa seppe pregare a una voce il capolavoro teologico e spirituale del Credo che ancora nutre la nostra fede.
A Nicea si prepara una profezia di riconciliazione tra credenti in Cristo. Lo sappiamo, perché ce l’hanno insegnato tutti i Papi dal Concilio in qua: solo l’abbraccio tra fratelli divisi dalla storia può rendere credibile l’invocazione di pace della Chiesa che con le parole di Leone ai pellegrini dell’Oriente cristiano si era messa «a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace». Parole che hanno scolpito un impegno che ora Prevost va a onorare – come aveva promesso – di persona. Da quando l’aveva assunto, Leone ha poi dato voce in ogni occasione pubblica alle genti stremate che «vogliono la pace», ripetendo in modi diversi che «io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare». Ripetiamocelo, perché il demone dello screditamento e dell’insofferenza verso chi “non la pensa come me” si insinua anche da noi, tra piazze e social media, e persino fra credenti, popolo chiamato a ricucire e non a lacerare. Abbiamo bisogno, tutti, di ritrovare pace. Anche per questo dà gioia la notizia del Papa pellegrino sulla soglia della guerra, e in un Paese nel quale troverà ben visibili i segni dell’onda d’urto che da Gaza si è propagata verso Nord, fino al cuore di Beirut. Ora è giunto il momento di andare, senza badare a chi strattonava la talare bianca perché facesse o dicesse questo o quell’altro: si va da pellegrini di pace, come Francesco dal sultano, non certo per prendersi la scena e strappare l’applauso. La pace, quella che resta, è allergica ai protagonismi. E annunciando la visita dove si sente l’eco delle bombe proprio il 7 ottobre – data di sangue e di lutto, ma anche memoria della Vergine del Rosario – papa Leone mostra cosa dà forma al suo stile e dove attinge la sua forza. Ha pazientemente tessuto la tela del primo viaggio che sarà proprio al centro della frattura che spacca il mondo. «Dobbiamo agire, fare tutto il possibile perché non sia troppo tardi» aveva detto il cardinale Parolin ai media vaticani poche ore prima. Ora sappiamo cosa intendeva. La mattanza mediorientale, dal 7 ottobre 2023 a oggi, è sembrata arrivare al punto da toglierci la parola e le forze, quasi rassegnati al peggio, in Terra Santa (e quanto è doloroso chiamare quel deserto di macerie umane e materiali col nome che ci è più familiare...) come in Ucraina, dove dopo quasi 43 mesi dall’invasione russa la macchina bellica pare aver ipnotizzato molte coscienze occidentali, persino possibiliste sulla prospettiva di lasciar sfogare le armi. Una tragica illusione. Come ha scritto il cardinale Pizzaballa domenica ai fedeli del Patriarcato di Gerusalemme, «abbiamo sentito molte volte ripetere che bisogna usare la forza, e solo la forza può imporre le scelte giuste da fare, solo con la forza si può imporre la pace. Non sembra che la storia abbia insegnato molto, purtroppo». Ora Leone va in Libano per aprire il libro della storia su un capitolo tutto diverso, quello della speranza di pace portata nel cuore da tutti i popoli, e che sta diventando un grido planetario. Prepariamola insieme a lui.

© RIPRODUZIONE RISERVATA