Nell’arte la contemplazione del mistero più grande

January 8, 2013
La fantasia degli uomini ha modellato gli dèi, la fantasia di Dio ha plasmato il Bambino di Betlemme. Nel divario estremo e nell’incontro stupito di due fantasie – la libertà di invenzione da un lato, la potenza creatrice dall’altro – l’arte si fa sacro e il sacro si fa arte. Nulla che si ponga al di fuori della ricerca del Signore della vita e che non contempli il mistero che ci sovrasta e in cui ci muoviamo vale la pena di essere raccontato o raffigurato. Ricerca che ha spinto le genti di ogni tempo e di ogni dove a innalzare templi per rendere gloria al mistero. In quegli spazi dove il sacro era quasi sempre divieto, luogo accessibile a pochi e proibito al popolo, si sono consumati nei millenni riti e sacrifici, spesso nel terrore del sangue, nel tentativo disperato di dominare la divina potenza costringendola in simulacri di pietra o di prezioso metallo.
Per millenni tutto è stato così umano, troppo umano, a volte tristemente bestiale. In quei templi però gli uomini si sono prostrati, hanno adorato, pregato, supplicato. Ma solo qualche antico greco ha avuto l’ardire di innalzare un’ara al Dio ignoto e solo il piccolo popolo generato da Abramo ha rifiutato di dare immagine e perfino un nome all’Altissimo. Quel nome che Mosè invoca per annunciarlo agli Ebrei schiavi in Egitto non sarà un nome da inserire in un nuovo Olimpo, ma luce di rivelazione: «Io sono Colui che sono» (Esodo, 14). Dio non si lascia imprigionare negli schemi umani, sollecita una conversione continua, non si accontenta, vuole tutto: mente, cuore, anima. Da ogni uomo, da ogni popolo, fin dall’inizio, fin dal Giardino ormai perduto. Per questo gli Ebrei, come il loro capostipite, sono così spesso in cammino.
L’esodo è il loro orizzonte: quel mettersi sulla strada è la condizione per la terra promessa, che è dono, mai conquista. Un cammino nato raramente da libera scelta. Pur nella costrizione di guerre, schiavitù, persecuzioni, apre a una libertà più grande, quella che non conosce limiti se non l’amore dell’Altissimo. L’amore geloso, esclusivo perché totale e incondizionato, è l’amore che liberamente sceglie e chiama. Così nasce il popolo eletto, per chiamata: "lek lekà" (vattene), imperativo senza appello rivolto ad Abramo perché abbandoni la sua terra e spezzi tutti i legami tranne uno, quello di Dio. Per chiamata giunge a noi il Salvatore: il saluto rivolto alla ignota fanciulla di Nazareth, ma l’unica "piena di grazia", è anche domanda di un Dio che chiede "permesso" per farsi uomo. Abramo, Maria, entrambi accolgono il mistero. E il mistero accolto si fa vita: Isacco, da lui un popolo nuovo; il Bambinello, da lui tutte le genti diventano un sol popolo, quello dei figli di Dio.
Lui, quel Bimbo, è insieme inizio e meta. I magi contemplano il piccolo Gesù dopo un lungo viaggio. Quella contemplazione è anche il punto di arrivo per ogni artista degno di questo nome, è il coraggio di farsi attrarre da chi è più grande di noi. Con lo sguardo all’insù a rimirar le stelle e piedi stanchi di percorrere lande deserte e terre inospitali diventiamo cercatori di luce. In questa tensione tra cielo e terra, in questa ricerca di cuore e di mente, che non si ferma a formule o concetti, ma vuole abbracciare tutto l’uomo così com’è, carne e anima, l’arte si fa sacro. E la fantasia dell’uomo incontra la fantasia di Dio per imprimere nella materia lo spirito della vita.
Luoghi dell’Infinito ha voluto raccontare tutto questo negli anni e vuole continuare a farlo: entrando nel diciassettesimo, abbiamo rinnovato testata e veste grafica, per meglio rispondere alla chiamata dell’Anno della fede. Lo facciamo con il numero in edicola affrontando il rapporto tra le arti e il sacro nel Novecento. Un dialogo mai così difficile, eppure sempre vivo, a dispetto di chi afferma che sia morto fin dall’Ottocento. Un dialogo che Gianfranco Ravasi, Mario Botta, Pierangelo Sequeri e altre grandi firme mostrano quanto sia stato e continui a essere bello, fecondo e ricco di stupore. Un dialogo che è avventura senza fine. 

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