La speranza può essere violenta, il coraggio è saper restare accanto

Dopo una morte dolorosa l'obbligo di mostrarsi felice e di esibire la fede, quasi un credere per senso del dovere. Ma può essere crudele. A non deludere è Cristo, con le ferite bene in vista
February 7, 2025
La speranza può essere violenta, il coraggio è saper restare accanto
Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” sta ospitando voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire dalle domande ispirate dalla Bolla d’indizione firmata dal Papa. Qual è, oggi, la speranza che “non delude”? Che speranze ispirano il nostro futuro? Su quali fondamenta edifichiamo progetti, attese, sogni? E la società, a che speranza attinge? Prosegue il nostro viaggio tra ipotesi di risposta.
Alzai verso di lui i miei occhi, lucidi, gonfi di pianto, probabilmente vuoti, mi disse che dovevo reagire, che dovevo avere speranza, che adesso bisognava andare avanti, mi disse qualcosa di questo tipo ma io avevo un cimitero dentro, e così le sue parole finirono per fami male. Lui voleva darmi speranza, invece quelle parole mi violentavano il cuore. Se avesse avuto il coraggio di scendere in me, nella parte segreta che mi torturava l’anima, se gli avessi dato il permesso, avrebbe visto l’inferno, si sarebbe spaventato, avrebbe saggiamente taciuto. Una morte dolorosa e improvvisa aveva lasciato dentro di me un campo di battaglia, c’erano rovine d’antiche felicità, si alzavano stanchi fumi a firma di incendi recenti, e c’erano morti in giro, c’era la mia vita fatta a pezzi, e poi c’ero io lì in mezzo, immobile, o meglio c’era quello che era rimasto di me, ciò che era sopravvissuto, e nel mio cuore da reduce anche l’amarezza di non essere morto pure io in quella battaglia.
«Devi reagire», ripeté, «devi avere speranza » e io, alla fine, gli diedi ascolto. Così accanto a me, nel cuore delle mie macerie, camminavano ora anche i sensi di colpa per il troppo dolore che mi stritolava, la colpa di non credere abbastanza alla resurrezione, la colpa di aver scritto e parlato tanto di Dio e di non mostrare la reazione di speranza che la fede doveva forzatamente dare. Reazione, dovere: era un vocabolario di guerra, di violenza, sapevo che le intenzioni erano buone ma quello che mi veniva proposto era di ribellarmi, di opporre alla forza del destino la forza della speranza. Una battaglia. Io lo feci e mi ritrovai a vivere una fede disumana. Dovevo dimostrarmi felice, dovevo esibire al mondo la mia fede, dovevo credere per senso del dovere, perché ero un professionista della religione, dovevo mostrare di essere all’altezza di quella richiesta, se mi chiedevano di reagire io dovevo farlo, dovevo credere, dovevo essere felice, dovevo. E poi, in segreto, finalmente, piangevo.
Credo che non esista nulla di più violento della speranza quando viene imposta, credo sia capitato a tutti, in un momento di lutto, di fatica, di essere raggiunti da persone che ci impongono di essere felici, o meglio, che non sono capaci di reggere il nostro dolore. Così diventano invadenti, e pericolosi, se li assecondiamo rischiamo di scivolare in una “fede” crudele. Credo che sia nostro dovere stare molto attenti in questo periodo giubilare perché il concetto di speranza sarà così onnipresente che rischierà seriamente di far male a chi cammina spazi di vita fragili. Occorrerà essere attenti, dolci e pazienti, avere grande pudore.
La prima cosa da fare credo sia liberarsi dall’idea che la speranza sia un concetto, una “cosa” da avere, da conquistare, un oggetto. La speranza è invece una persona, la speranza è Cristo in persona, è l’incontro con lui. E se la Speranza è Cristo non possiamo dimenticare che è lui vivo qui e ora, ma lui crocifisso e risorto. Soprattutto crocifisso, mi permetto di dire, lui che appare come è apparso agli amici dopo la Resurrezione: con le ferite bene in vista. La speranza non delude per questo, perché chi parla porta addosso i segni della morte. Se non ci fossero i segni della croce avrebbe ragione Tommaso, Cristo non sarebbe credibile, detto in altro modo, se qualcuno mi propone la speranza, se la propone a noi, se vuole essere credibile, deve essere morto nei nostri stessi dolori. Il resto è solo teoria pericolosa, catechesi disumana, religione ideologica. Hai ragione nel dirmi che la speranza non delude, ma puoi dirmelo solo se accetti di scendere nell’inferno che mi porto dentro, se accetti di guardare e di sentire il dolore che provo io, se accetti di morire, senza questo la tua non è speranza, non è fede, non è nient’altro che insieme di buone intenzioni che fanno male. Bisogna essere coraggiosi per parlare di speranza, bisogna essere segnati dalle stimmate del dolore, solo il martirio rende la fede credibile.
La speranza che non delude è Cristo, «via, verità e vita». Per non essere violenta anche la nostra testimonianza deve seguire le stesse strade. Deve essere prima di tutto una Via. Una via lenta, dura, dolorosa, più simile a una Via Crucis che ad un moderno pellegrinaggio tutto compreso. Se vogliamo essere testimoni di speranza dobbiamo chiederci se abbiamo allenato sufficientemente il cuore alla condivisione del dolore. Se siamo in grado di assumere la lentezza propria della morte, noi non sappiamo quanto tempo ci vorrà per attraversare il guado, e non sappiamo nemmeno se arriveremo dall’altra parte, quello che possiamo è: rallentare, accettare di essere inutili e insignificanti, accogliere di non poter sciogliere il nodo del dolore ma stare, stare lì, camminare piano. O addirittura, sulla via, restare fermi, immobili, ma stare. Uno stabat vivente. E poi silenzio, non dire nulla, non spiegare nulla, non imporre nulla. Non daremo consolazione immediata ma quell’atteggiamento spirituale ci trasformerà in segni viventi del Risorto. Ci vuole tanta fede, tantissima, per resistere accanto ai crocifissi fermi e in silenzio. Stabat Mater, serve imparare dalla madre dei dolori.
Combattere la violenza della speranza sarà possibile togliendosi i sandali davanti al Mistero che danza le carni di ogni nostro fratello, soprattutto le carni provate, martoriate, dissanguate. Non è la speranza che crediamo di avere a essere utile ma la Verità che sboccia da un approccio compassionevole. La Speranza è la Verità che abita la compassione. Assumere il rischio della Speranza è accettare di abitare la notte oscura dell’altro, più ancora, è far esplodere in noi una notte oscura altrettanto terribile e interrogarla. Sì, interrogarla e non sconfiggerla. La vera speranza non è la luce che annienta l’oscurità ma l’accostarsi delicato di un cuore sensibile che arriva a percepire che anche la morte è viva, che ha un respiro, che non nega la vita ma la compie. La Speranza è la consapevolezza che la Verità è viva e abita anche le pieghe più oscure della storia. Una speranza che non sia violenta accetta di calarsi con noi nella notte per sentire, nella mangiatoia dei giorni, il vagito della vita che non può far altro che vivere.
La speranza è la Vita, ma non una vita che si contrappone alla morte come fossimo in un violento gioco tra opposti, la speranza è la vita che sa aprirsi come quando cede una porta nel muro apparentemente impenetrabile della disperazione. Una porta che si può schiudere proprio a partire dai drammi, porta davvero santa, porta certamente più faticosa da scostare, porta nascosta, apertura che non si tradurrà mai in evento mediatico eppure pertugio che spalanca all’Eterno, ferita sanguinate d’oro che permette di battezzare come perfetta letizia il proprio dolore. Ma solo il proprio. Se volessimo imporre letizia agli altri, se volessimo spiegare come vivere francescanamente il dolore saremmo ancora una volta violenti.
Invece la Speranza non è mai violenta, mai. Adesso mi capita ancora di scendere nel dolore che mi soffocava il cuore anni fa, ci sono ancora macerie, non le ho scostate, qualche incendio non smette di bruciare e se anche la forma esteriore del dolore è meno evidente io so per certo che quando scendo al cuore di certe mancanze a me sembra ancora di morire. Altri dolori si sono aggiunti. La Speranza non ha annullato niente di me. Io sono anche il frutto di quei dolori, infatti quando quotidianamente torno a camminare i miei cimiteri sento accanto a me il custode del giardino, che mi chiede “perché piangi?”, mi domanda “chi cerchi?” e questi due interrogativi sono per me la radice di ogni vera speranza. Piango perché sono vivo e perché la mancanza dell’amore è terribile ma spero perché in ogni respiro, anche in quello che tiene viva la morte io so, mio Signore, di poterti cercare e so di essere cercato.

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