La speranza è Qualcuno che resta anche quando la musica si spegne
Si può entrare in qualsiasi notte con una tranquillità profonda. Non perché il male scompaia, ma perché Dio non se ne va. Resta. Ostinatamente. Pure se le canzoni non lo cantano più

Sono nato in Inghilterra. Forse è lì che è iniziata la mia fascinazione per tutto ciò che proveniva da quell’isola. Cresciuto in Italia, ho ricevuto un’educazione marcatamente britannica: riservatezza, laicità, rispetto delle differenze, il senso della famiglia unito al valore dell’indipendenza. E naturalmente l’amore per la musica d’oltremanica. Non un passatempo, ma un codice per leggere la realtà. I Beatles non erano solo una band: la loro musica modellava il mio pensiero. John Lennon, con la sua ostinata ricerca di verità dietro le ipocrisie, divenne una bussola. Per me la musica è sempre stata un modo per dire «io sono così», per cercare alleati e non sentirsi soli in un mondo che ci vorrebbe più stupidi. Da ragazzo, il punk, il rock’n’roll e il reggae sembravano l’unico modo di sopravvivere: generi che contestavano il potere e denunciavano disuguaglianze scandalose.
Lavoravo nelle radio private: di giorno trasmettevo hit commerciali per pagarmi da vivere, di sera sceglievo brani ruvidi, scomodi. Era il mio modo di restare onesto, anche quando faceva male. Credevo che la musica dovesse denunciare le ingiustizie e dare voce agli ultimi. Crescevo ascoltando i Damned e David Bowie, le contaminazioni di Don Letts, l’irriverenza dei Kinks. Mi attirava la promessa di un altrove possibile. Trovavo conforto nella fragilità di John Martyn e dei Joy Division, nella frattura emotiva di Nick Drake. Mi sembrava che la speranza fosse solo un inganno per creduloni o politici scaltri. A un certo punto, la disperazione che sentivo mi mise a disagio. Le canzoni non fermavano guerre né povertà. Rendevano il dolore più sopportabile. Non mantenevano le promesse di felicità, ma a volte salvavano qualcuno dal baratro. A volte salvavano me. Perché Dio usa ogni mezzo per strapparci al pericolo. Il percorso di ricerca mi ha portato in chiesa. Ho riconosciuto Cristo vivo nell’Eucarestia. Non ci arrivai per devozione, ma per bisogno. Me ne innamorai fino a diventare prete. E oggi, ironia o mistero di grazia, suono quei dischi a Radio Vaticana. Non canzoni edificanti, ma brani che osano interrogare il Mistero. Scrivo di educazione e di musica per “L’Osservatore Romano”. Ho pubblicato libri sul fondamento biblico del rock. La fede non ha spento il fuoco di allora: l’ha reso più concreto. Mi chiedo ancora se ci sia traccia della speranza nelle canzoni che ascolto e nella vita delle persone che incontro. È la stessa domanda della Bolla giubilare: «Qual è, oggi, la speranza che non delude?»
Ho attraversato un tempo in cui la speranza sembrava morta. La malattia di mio padre mi costrinse a svegliarmi e ad attraversare l’inferno in un rapporto difficile fin dall’infanzia. La sua ostilità verso la vocazione mi feriva. Quando si ammalò, mi sentivo sollevato all’idea della sua partenza per l’aldilà. Ed ero già prete. La sua povertà, il non sentire il bisogno di una famiglia nemmeno davanti alla fine, mi mise con le spalle al muro. Ero come Giona nella bocca del pescecane. Ed è lì che la speranza si è mostrata, come una mano che ti afferra nel buio. Aveva il volto di mio padre che non sapeva chiedere aiuto, ma lo desiderava. Mi costrinse a restargli accanto. Non divenne un padre affettuoso, né io un figlio esemplare. Non ci perdonammo. Non fu necessario esplicitarlo. Ci scoprimmo indispensabili l’uno per l’altro. E fummo salvati, convertiti dalla Misericordia. Intanto, la musica continuava a scorticarmi la coscienza. Non è un totem idolatrico né una nemica. È un linguaggio. Serve a non mentire a sé stessi. Le canzoni raccontano la mia condizione e ciò che ho visto: un uomo che non voleva morire, ma che era destinato a una fine prematura a causa di un cancro. In quel periodo ascoltavo The Cross di Prince, nella versione gospel dei Simple Minds. Versi che sembrano salmi: «Giornata nera, notte tempestosa / Nessun amore, nessuna speranza in vista / Non piangere, sta arrivando / Non morire senza conoscere la croce». Il Vangelo non è un analgesico. È un Dio che si lascia ferire e morire, trasformando il dolore. Non è un premio per i buoni, ma una porta per chi non ha più scuse.
Lo penso ascoltando Circus di Eric Clapton, una canzone che non offre con-solazioni facili. Un uomo piange perché si è bruciato l’anima, ma cerca qualcuno che lo salvi. La musica promette che la guarigione arriverà, prima o poi. Ma non spetta a lei realizzarla. Resta la smania di raggiungerla. E a volte l’amarezza di non poter guarire da ogni male. La speranza cristiana non è la promessa di qualcosa, ma la certezza di Qualcuno che non ti lascia morire crocifisso. Non elimina il dolore, ma garantisce una compagnia. Di carne, di volti, di amici. Una Chiesa che ti si siede accanto e non si alza finché non guarisci. Questo provo a fare ogni giorno: ascoltare davvero, senza fretta di rispondere o giudicare. Restare accanto, anche quando non ho risposte da dare. Agli studenti cui insegno Religione che mi mettono alla prova con le provocazioni, a chi si sintonizza sulla radio o legge i miei articoli in cerca di senso. Offro una presenza, Gesù, che non scappa di fronte alla fragilità, ma che le accoglie. Non voglio indossare maschere di sapienza o far finta di possedere una forza che non ho: testimonio che la mia debolezza è uno spazio in cui la speranza è germogliata. Perché credo che la speranza non consista nel promettere soluzioni o miracoli, ma nel sapere che non si è soli. Che qualcuno resta, ascolta, comprende, piange con te e attende con te. E questo è già un seme di risurrezione.
Ogni giorno provo a dire, anche solo restando zitto accanto a chi soffre, che il dolore non è l’ultima parola. Non ho ricette, non prometto salvezze facili: ma mi ostino a credere che non siamo condannati a restare soli, nemmeno nel momento peggiore. Con mio padre, Dio mi ha mostrato che si può sopportare la notte quando qualcuno veglia con te. La speranza non è luce sparata addosso per negare l’oscurità, ma un fuoco piccolo, inestinguibile, che non si lascia spegnere. Non serve a spiegare il senso del male, ma a non farsene divorare. E questa è l’unica promessa che mi sento di fare: restare. Restare anche quando non c’è più niente da dire. Restare per non lasciarsi morire. Don Luigi Giussani scriveva: «L’uomo non si fa da sé. Sono perché sono fatto. Sto in piedi perché mi appoggio a un altro». Ecco cos’è la speranza. Entrare in qualsiasi notte con una «tranquillità profonda». Non perché il male scompaia, ma perché Dio non se ne va. Resta. Ostinatamente. Anche quando le canzoni non lo cantano più.
Sacerdote, insegnante e scrittore, critico musicale dell’Osservatore Romano e conduttore radiofonico di Radio Vaticana
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Temi






