Quando, il 13 settembre 1993, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano nei giardini della Casa Bianca sotto lo sguardo di un sorridente Bill Clinton, un fremito di speranza attraversò la Terra: gli Accordi di Oslo, o meglio ancora la Road map per un processo di pace arabo-israeliano individuata da quella stretta di mano, erano un atto pubblico. Che poi, in questi 30 anni e più, quel processo politico si sia arenato o addirittura sia deragliato è una triste evidenza che non serve commentare. Ma un percorso, con l’obiettivo dei due popoli e due Stati capaci di vivere in pace, si mise in moto coinvolgendo l’Anp come attore decisivo, assieme ovviamente a Israele.
Ben diverso il “sentiment” che trasmette la foto di Donald Trump e Benjamin Netanyahu, scattata lunedì all’ingresso dell’ala ovest della Casa Bianca: risalta, nel confronto, l’assenza di una qualsiasi rappresentanza palestinese o araba. Senza entrare nei dettagli dei 20 punti, il “Piano Trump” è stato presentato pochi giorni dopo l’Assemblea generale Onu che ha visto importanti Paesi del G7 – a cominciare da Francia, Regno Unito e Canada – impegnarsi a riconoscere lo Stato di Palestina. Il “Piano Trump” sembra essere una replica pianificata al dibattito al Palazzo di Vetro. E soprattutto ha l’”amaro sapore” di una proposta unilaterale di Washington e Tel Aviv messa sul tavolo di una diplomazia stanca, e quasi svilita. Il “Piano Trump” – al punto 19 – allude pure al «crearsi» delle «condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese» dopo che Gaza sarà stata amministrata da un “Board of peace” presieduto dallo stesso Trump. Un percorso, avendo posto, però, in premessa pre-condizioni e dato ultimatum: se il piano non verrà accettato da Hamas, Netanyahu ha promesso di «finire il lavoro» (il “genocidio”?) a Gaza. Una frase che equivale a una pistola alla tempia della controparte che, accettata la proposta, deve liberare gli ostaggi entro 72 ore. Il coro dei consensi è già iniziato nelle capitali europee, nei palazzi dell’Ue, e fra i Paesi arabi dall’Arabia Saudita alla Turchia, quest’ultima dopo aver gridato al «genocidio» al Palazzo di Vetro: tutti pronti ora ad accodarsi nel lodare il “Piano Trump”.
Certo ogni tentativo di far tacere le armi è importante, il desiderio di raggiungere una tregua è il disperato anelito della popolazione palestinese e di quella israeliana: per questo c’è da augurarsi che si smetta di combattere al più presto. Ma in cosa sta la differenza tra quelle due istantanee alla Casa Bianca? La foto del 13 settembre 1993 fu il risultato di una lunga trattativa tenuta segreta, e favorita prima dalla Conferenza internazionale di Madrid del 1991 presieduta da Bush e Gorbaciov per rilanciare un processo di pace per il Medio Oriente che lo storico Benny Morris definisce un «evento diplomatico» al di là dei contenuti. Trattativa sotto traccia e poi favorita dall’elezione di Rabin a premier nel 1992 e dalla genialità di alcuni negoziatori che lavorando nell’ombra, facendo gli “sherpa”, seppero in modo rocambolesco e geniale vincere diffidenze e aperte opposizioni interne e della controparte. Fatica negoziale, ma anche di condivisione di un percorso.
È vero, tornando al presente, che sfibranti e inconcludenti negoziati tra Hamas e Israele vanno avanti da due anni con la mediazione di Usa, Egitto e Qatar, e l’omicidio mirato dei negoziatori di Hamas è stata una sorta di pietra tombale sulle trattative. La “congiuntura astrale” positiva per Oslo nel 1993, non è di questi tempi: un nodo che pare inestricabile è quello della “governance” dei palestinesi senza una vera dirigenza. Se Hamas è un gruppo terrorista, per giunta decapitato dagli omicidi mirati, a Ramallah c’è una classe dirigente dell’Anp delegittimata e non rappresentativa di un territorio dove non si riesce a votare dal 2006.
Imporre dall’alto uno schema politico, per quanto ambizioso e seducente, rappresenta una forzatura che rischia di provocare solo risentimento o, al massimo, una “pax americana” ma non una vera tregua. La chiave del successo del “Piano Trump”, al di là dei 20 punti che già alcuni iniziano a contestare, sta invece nel saper aprire ora un confronto multilaterale su Gaza e su tutta la crisi mediorientale. Urge, insomma, in modo drammatico un ritorno alla diplomazia e, appena possibile, alla politica.
Un “miraggio” per anime belle? Trump tornato alla Casa Bianca lo scorso gennaio, ha mostrato, a parole e nei fatti, di voler bypassare diplomazia e diritto internazionale agendo con un personalismo nelle relazioni internazionali pericolosissimo se non catastrofico. La pace, invece, chiede il coraggio del confronto e il “martirio” del dialogo.
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