Ebrei e cristiani: un nuovo patto per uno sguardo pulito sulla complessità
Per superare questo momento difficile del dialogo, bisogna ritrovare fiducia. E serve unità, per dissociarsi insieme dalle politiche fratricide (sia di Hamas sia del governo Netanyahu)

Il dialogo tra ebrei e cristiani attraversa una delle fasi storiche più difficili, proprio nell’anniversario dei 60 anni della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate del Vaticano II, che ha rappresentato una svolta nell’atteggiamento della Chiesa verso l’ebraismo. Il corto circuito tra la condanna delle attuali politiche del governo Netanyahu e la riemersione di fenomeni di antisemitismo rischia di minare fiducia e comprensione anche tra fedi sorelle. Da un lato, si reclama la possibilità di criticare i crimini di guerra di Israele senza essere accusati di antisemitismo (c’è qui la complessa questione della differenza/relazione con l’antisionismo). Dall’altro, si considerano le stragi e le violazioni israeliane come pretesti per far riaffiorare un’ostilità mai sopita, antichi pregiudizi, demonizzazioni.
Eppure, i credenti cristiani ed ebrei potrebbero superare questa impasse rinnovando un patto di fiducia che era andato rafforzandosi nel post-Concilio. Chi guarda gli altri con sguardo fraterno, privo di ostilità, affronta anche la complessità senza manicheismi e forzature. Distinguere tra le politiche di un governo di destra estremista e l’esistenza dello Stato di Israele si può. Condannare senza riserve la distruzione del popolo palestinese, soffrendo allo stesso tempo per la salvezza degli ostaggi israeliani si può. Chiedere la pace per tutti, come ha fatto papa Francesco e ora Leone XIV, senza paura di tradire una parte o l’altra, si può. Capire il bisogno di sicurezza di uno Stato-rifugio e allo stesso tempo difendere il desiderio della diaspora ebraica di non farsi imprigionare in un’identità esclusiva si può. Condannare le misure di pulizia etnica e individuare allo stesso tempo, in molte forme di contestazione “proPal”, il veleno dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, si può.
Se in buona fede, è possibile anche discutere della parola “genocidio” nel modo accorato e sofferente di David Grossman e di Liliana Segre. Nessuno metta in dubbio l’enormità delle ferite palestinesi (né quelle del 7 ottobre), ma l’accanimento per usare tale termine (che dal punto di vista tecnico-giuridico potrebbe – almeno finora - non corrispondere alla situazione attuale) rivela in molti il desiderio di affermare che “Israele sta facendo agli altri quello che ha subìto in passato dai nazisti”. C’è bisogno di stabilire questa equazione? Dobbiamo indebolire a tal punto la memoria della Shoah, spartiacque della civiltà, dicendo che oggi accade lo stesso, volendo identificare ad ogni costo il progetto di Soluzione finale con gli eventi di oggi?
I credenti ebrei possono respingere la tentazione di ravvisare nel rifiuto della violenza a Gaza sempre e comunque ostilità antiebraica. Credenti cristiani possono prendere coscienza dei pregiudizi antigiudaici che non raramente emergono dietro la condanna delle violenze geopolitiche. È soprattutto su questo che le comunità cristiane hanno l’obbligo di vigilare e, in particolare, sui tradizionali argomenti dell’antigiudaismo cristiano, tra cui l’accusa all’ebraismo di voler rivendicare il privilegio dell’elezione e di coltivare l’idea di un Dio vendicativo e feroce contrapposto al Gesù dell’amore.
Va osservato che per cristiani ed ebrei “l’Alleanza mai revocata” è un vero e proprio luogo teologico, come ha mostrato Massimo Giuliani. Per la Nostra Aetate e per tutti i documenti cattolici seguenti, compreso il Documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo del 1985, Israele è il popolo di Dio, che non è mai stato revocato né sostituito. Il rifiuto della “teologia della sostituzione” è parte integrante della cultura della Chiesa post conciliare. Per questo, affermare che non c’è nessun popolo eletto e nessuna terra promessa, considerandoli arcaismi tribali, sia pure alla luce di una visione filosofica kantiana, come ha scritto Eugenio Mazzarella, rischia di leggere la relazione “eccezionale” di Dio con Israele attraverso le categorie dell’identità politica. Oppure, come fa Vito Mancuso, attribuire alla “religione” la violenza del coloni israeliani (chiamando in causa un non identificato “israelismo”) significa avallare, pur senza volerlo, la lettura fondamentalista di tipo politico da parte di alcuni membri del governo israeliano che trovano la fonte dell’odio nella Bibbia.
Se in buona fede, è possibile anche discutere della parola “genocidio” nel modo accorato e sofferente di David Grossman e di Liliana Segre. Nessuno metta in dubbio l’enormità delle ferite palestinesi (né quelle del 7 ottobre), ma l’accanimento per usare tale termine (che dal punto di vista tecnico-giuridico potrebbe – almeno finora - non corrispondere alla situazione attuale) rivela in molti il desiderio di affermare che “Israele sta facendo agli altri quello che ha subìto in passato dai nazisti”. C’è bisogno di stabilire questa equazione? Dobbiamo indebolire a tal punto la memoria della Shoah, spartiacque della civiltà, dicendo che oggi accade lo stesso, volendo identificare ad ogni costo il progetto di Soluzione finale con gli eventi di oggi?
I credenti ebrei possono respingere la tentazione di ravvisare nel rifiuto della violenza a Gaza sempre e comunque ostilità antiebraica. Credenti cristiani possono prendere coscienza dei pregiudizi antigiudaici che non raramente emergono dietro la condanna delle violenze geopolitiche. È soprattutto su questo che le comunità cristiane hanno l’obbligo di vigilare e, in particolare, sui tradizionali argomenti dell’antigiudaismo cristiano, tra cui l’accusa all’ebraismo di voler rivendicare il privilegio dell’elezione e di coltivare l’idea di un Dio vendicativo e feroce contrapposto al Gesù dell’amore.
Va osservato che per cristiani ed ebrei “l’Alleanza mai revocata” è un vero e proprio luogo teologico, come ha mostrato Massimo Giuliani. Per la Nostra Aetate e per tutti i documenti cattolici seguenti, compreso il Documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo del 1985, Israele è il popolo di Dio, che non è mai stato revocato né sostituito. Il rifiuto della “teologia della sostituzione” è parte integrante della cultura della Chiesa post conciliare. Per questo, affermare che non c’è nessun popolo eletto e nessuna terra promessa, considerandoli arcaismi tribali, sia pure alla luce di una visione filosofica kantiana, come ha scritto Eugenio Mazzarella, rischia di leggere la relazione “eccezionale” di Dio con Israele attraverso le categorie dell’identità politica. Oppure, come fa Vito Mancuso, attribuire alla “religione” la violenza del coloni israeliani (chiamando in causa un non identificato “israelismo”) significa avallare, pur senza volerlo, la lettura fondamentalista di tipo politico da parte di alcuni membri del governo israeliano che trovano la fonte dell’odio nella Bibbia.
Al di là delle opinioni che mostrano una lontananza sia dall’incontro reale con le persone sia dalla complessità del dialogo, in che cosa possiamo convergere ebrei e cristiani, oggi, a distanza di 60 anni dalla Nostra Aetate? Nella convinzione che l’elezione di Israele è una realtà permanente, ma alla luce della responsabilità e della vocazione verso il bene comune. È urgente trovarsi insieme nel concepire quell’elezione non come una pura preferenza etnica, una superiorità di Israele sugli altri popoli, ma una sfida etica, una chiamata al servizio e alla responsabilità. Il dono della terra (non un possesso incondizionato) non è mai separato dal codice etico che esige l’accoglienza dello straniero, la giustizia sociale, la cura dei poveri.
Nel pensiero, ad esempio, di Emmanuel Lévinas, la coscienza dell'obbligo verso gli altri pone in una condizione eccezionale, in una posizione di elezione: essere scelti a servizio di altri. In questo senso, per Lévinas, Israele realizza sia particolarismo (la “posizione in disparte dalle altre Nazioni”) che universalità (responsabilità e obbligo che “sostengono il mondo”). A sua volta, Michael Walzer parla di universalismo “reiterativo” di Israele, per cui la liberazione è un'esperienza particolare, ma può ripetersi per ciascun popolo. Attraverso la differenza dell'amore divino, Walzer vuole esprimere la possibilità di pervenire all'universale attraverso il particolare. Anche il teologo protestante Walter Brueggemann aggiunge una lettura particolare della primogenitura di Israele, vista come predilezione di amore da parte del Padre (Es 4,22). Ma contesta che la coscienza di questo amore speciale diventi giustificazione del potere secolare.
Insomma, dobbiamo “pensare” insieme, in modo nuovo e spirituale, una visione universalista che però non sminuisca la particolarità della promessa biblica. Possiamo rintracciare nella Bibbia tutte le promesse di Dio e l’apertura all’universalismo sia della fede ebraica sia di quella cristiana e non permettere che i conflitti “in famiglia” e la rivalità tra fratelli che abbiamo attraversato nella storia diventino demonizzazione. Si può contrastare l’integralismo contro cui Wlodek Goldkorn invoca una nuova laicità, e ristabilire, anche in momenti di crisi come questo, l’equilibrio fra principi etici universali e identità particolare di cui parla David Assael.
Dividersi in questo momento è profondamente colpevole. C’è bisogno di unità tra ebrei e cristiani, per dissociarsi insieme dalle politiche fratricide (sia di Hamas sia del governo Netanyahu) e per creare condizioni di pace. Non è necessaria, anzi può essere controproducente una nuova norma contro l’antisemitismo, che rischierebbe di cristallizzare definizioni e realtà fluide. C’è bisogno di un nuovo filosemitismo che veda i cristiani alleati degli ebrei nella difesa dei diritti di tutti.
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