Desiderio, partecipazione, coraggio: la vera speranza è mettersi in cammino

Se non comporta un rischio personale nostra ricerca del futuro può cedere alla superficialità e restare inerte. La voce (autocritica) di uno scrittore
October 6, 2025
Desiderio, partecipazione, coraggio: la vera speranza è mettersi in cammino
Profughi in Madagascar dopo un'alluvione: a spingerli la necessità di aprirsi un nuovo futuro, rischiando la vita
Scrittore milanese (1978), sposato e padre di due figli, Marco Balzano è una delle figure più interessanti della scena letteraria. Sette romanzi – da “Il figlio del figlio”, nel 2007, a “Bambino” (Einaudi, 2024) –, vari premi letterari (dal Campiello al Bagutta), Balzano insegna scrittura all’Università Vita e Salute del San Raffaele di Milano, alla Scuola Holden di Torino e alla Belleville di Milano. Di recente è stato ospite dell’Arcidiocesi ambrosiana al Giubileo della Scuola in Duomo.
Secondo Giacomo Leopardi la speranza è innata: tutti, da sempre e in qualsiasi situazione, la possiedono perché non è separabile dalla vita. Anzi, la speranza è la vita. Per il poeta si tratta della prefigurazione di un mondo migliore, di un domani alleviato dalle sofferenze del presente. Dato che però sul futuro non si hanno certezze, appena la nominiamo subentra l’immaginazione, la quale tende a vivificare scenari positivi e situazioni che ci danno sollievo e piacere. Non proseguo oltre, anche se sappiamo che nel pensiero leopardiano l’uomo va inevitabilmente incontro alla delusione, sia perché la realtà è più scadente del «caro immaginar», sia perché l’età adulta è peggio della giovinezza, sia perché la Natura non è interessata al nostro bene. Sia, infine, perché «la vita è male».
Fermiamoci allora sull’immaginazione. La speranza è un atteggiamento di apertura al futuro in nome della sua possibilità di essere più felice del presente. È proprio qui che la parola si rivela bifronte e il terreno su cui cresce risulta più sdrucciolevole di quanto possa sembrare. Sotto la scorza di un’apparente purezza – chi spera ci trasmette un’idea positiva, abbandonato com’è al suo desiderio – si nasconde una dimensione rischiosa che m’intimorisce: il fatalismo. La speranza che sta sulle nostre bocche, infatti, è molto spesso inerte: una preghiera distratta, un augurio senza convinzione che affidiamo alle onde come un messaggio in bottiglia. Speriamo che la guerra finisca, che il nostro amico guarirà, che noi stessi risolveremo quel problema che da troppo tempo ci affligge. Speriamo per cose piccole e minute, grandi e universali, a cui però rivolgiamo la stessa debole invocazione.
Anch’io molte volte vivo la speranza in modo fatalista. E sebbene cerchi di sorvegliarmi, capita che mi ritrovi a riporre in un’entità imprecisata il miglioramento della mia sorte e di quella del mondo. O forse non mi rivolgo a niente e nessuno, pronuncio soltanto parole che galleggiano nel vuoto perché non hanno peso. Quando me ne accorgo mi vergogno, mi sento lo stesso ragazzino che sperava di non essere interrogato e che poi, scampato il pericolo, continuava a non studiare Matematica. Mi vergogno perché sono consapevole che sperare in questa maniera è liquidatorio e deresponsabilizzante. Una simile speranza, infatti, non è una forza che mette in moto, che agita, che porta avanti. È superficiale e si trascina domande come “Potrei mai, con le mie misere forze, fermare una guerra?”, “Far guarire il mio amico?”, “Risolvere il problema che mi accompagna da tempo immemore?”. No. Dunque, come la massa, spero che il conflitto finisca, che il mio amico guarisca, che il problema si risolva, ma mi sento legittimato a restare fermo senza alzare un dito. Ecco, quando i sentimenti o le emozioni non mi mettono in gioco, ma mi lasciano in disparte come nel tempo in cui non li avevo sperimentati, mi vergogno.
Rifiuto quella speranza che fa di me un impotente che non ha nulla da offrire, nemmeno la sua presenza. Per me, infatti, la vera speranza è fatta di partecipazione e di coraggio. La Palestina è in fiamme, ridotta in macerie: i bambini muoiono di fame. L’immagine di speranza più forte che ho visto non sono stati gli auspici di tregua lanciati da questo o da quel politico; è stata la Flotilla, un insieme di imbarcazioni – una cinquantina, con seicento persone a bordo – dirette a Gaza per portare aiuti. Su quelle barche sono sicuro che ci fossero donne e uomini che sanno cos’è la speranza. Che sperano veramente in un domani migliore, e l’hanno testimoniato mettendoci la loro voce, il loro impegno, il loro corpo. L’hanno esposto al pericolo del mare, dei droni, dei militari dell’Idf. La speranza diventa così un gesto, non un afflato velleitario o una parola che nasce e muore sulla bocca di chi la pronuncia. Si fa concreta come concreto è il corpo. Questa unione di persone ci racconta di una speranza che è partecipazione e, quindi, aggregazione. Anche chi è andato in mezzo al Mediterraneo è consapevole che le sue singole forze non sono sufficienti, ma proprio per questo ne cerca altre. L’alternativa sarebbe gettare la spugna. Lasciare che il peggio avvenga mentre lo accompagniamo con sfiatate preghiere.
È interessante osservare come in latino spes, “speranza”, indichi il contrario di metus, “paura”. Per questo la speranza è intessuta di coraggio, e per questo qualsiasi speranza che non richieda il superamento di un rischio resta soltanto una parola dietro cui ci schermiamo. Che sia movimento ce lo dice ancora la lingua: la radice indoeuropea di questa parola indica infatti una tensione verso qualcosa che possiamo genericamente chiamare desiderio. E per raggiungere ciò che desideriamo bisogna mettersi in viaggio. Adesso dovrebbe essere più semplice comprendere quanto tale sentimento inneschi un insieme di azioni complesse, che non prevedono l’attesa ma l’azione. Realizzo la mia sofferenza, non cedo al nichilismo ma mi concentro sui margini di miglioramento che vedo, mi attivo per andare incontro all’ostacolo e coinvolgo altre persone per aumentare le mie forze. La nostra crescita e quella della comunità in cui viviamo non è un miracolo o un dono calato dall’alto, né un tocco benevolo della sorte che ha deciso di graziarci o di risparmiarci: si tratta piuttosto di un progetto a cui dare la giusta forma.
Nei momenti di difficoltà torno spesso a ripetermi le parole di Antonio Gramsci: «Istruitevi, agitatevi e organizzatevi». Sono la migliore sintesi per indicare quanto la speranza sia una costruzione. Proprio come nella Bibbia i “costruttori di pace”. C’è una dimensione civile e politica in questa parola, sia per l’impegno e il coinvolgimento che richiede, sia per le ricadute pubbliche che può avere. È vero allora quel che diceva Leopardi? La speranza e la vita formano un’equazione? Sì, se penso che dentro ciascuno di noi gira un motore che ci sprona, persino negli stati di acuta sofferenza, ad alzarci ogni mattina e a portare avanti la nostra esistenza, anche quando sembra diventata un peso insopportabile per le nostre spalle. Grazie alla spinta cieca di questo motore a volte riusciamo ad avvicinarci o a raggiungere la guarigione, la consolazione, la soluzione, e il sole torna a splendere e a scaldarci. Siamo felici di “non aver perso la speranza”, di aver continuato a cercare di capire, a curarci, a restare in contatto con gli altri.
Ma rispondo anche no, perché non posso dire di vedere diffusa attorno a me quella speranza in cui vorrei sempre rispecchiarmi. Le ragioni sono molte e molte certo mi sfuggono, ma tocco con mano che in questo angolo di mondo travagliato e comunque più privilegiato di altri ritrovo spesso una speranza pigra e retorica. Una società basata sul consumo, incapace di tollerare la noia e priva della pazienza necessaria all’elaborazione di pensieri articolati, non aiuta a realizzare il motto gramsciano. La merce funge da palliativo e davanti agli schermi si è soli e, di conseguenza, più deboli. Forse ci vorrebbe un’educazione alla speranza: bisognerebbe insegnare a sperare – e dunque a immaginare – mostrando quanto sia un gesto intellettualmente e fisicamente complesso. Altrimenti il suono della parola resterà sempre un augurio formale o, peggio, un lamento sterile.
Eppure, non solo perché – come diceva Leopardi – è una forza innata, e non solo perché sarebbe paradossale concludere un ragionamento sulla speranza affermando che non ne trovo, eppure io credo che ci siano delle sacche di resistenza che illuminano il buio in cui brancoliamo. Sono minoranze di tutte le culture, le età, le religioni: se ne trovano dove non ti aspetti, anche sui terreni sassosi e aridi, e a volte fioriscono come ginestre. Il mondo, del resto, è sempre progredito grazie a minoranze coraggiose, intrepide, raggianti. Proprio come la speranza.

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