Dalla grandeur al tracollo: perché il sogno di Macron è finito
In queste ore si ama dire che la Francia si sta italianizzando. Ma evitiamo per favore quei sorrisi di divertita commiserazione di fronte alle inconfutabili difficoltà dei cugini francesi

«Potete rovesciare il governo, ma non potete cancellare la realtà». È l’amarissima ma altrettanto realistica chiosa con cui il dimissionario François Bayrou si è congedato dall’Assemblea Nazionale, riponendo simbolicamente quella scure di cui il suo governo stava affilando la lama, predisponendo drastiche misure di bilancio e una austerity per il 2026 che puntava a 44 miliardi di euro di tagli alla spesa e nuove imposte. Ma tutto è naufragato nella Francia di Emmanuel Macron: la fiducia, la grandezza, la grandeur, la speranza in un domani migliore. Le nude cifre corredano la sfiducia che è calata sul governo: 3.415 miliardi di debito pubblico e un bilancio che non raggiunge il pareggio da 51 anni, «una nave - come si è sentito dire durante il dibattito – che imbarca acqua da mezzo secolo».
Al di là delle decisioni che prenderà il presidente – difficile che accetterà di farsi da parte considerato il contesto internazionale che vede la Francia attiva in prima persona sue due fronti caldi, l’Ucraina e il riconoscimento dello Stato palestinese – il macronismo è finito. La spinta propulsiva di En Marche!, il guizzante tecnocrate con lampi di spartachismo socialista che si muoveva spavaldo sull’onda di un riconoscimento popolare che lo aveva traghettato con un balzo dalla sinistra di Hollande all’Eliseo, oggi sono solo un ricordo. Il ragazzino che amava sopra ogni cosa Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, che leggeva Gide, suonava il pianoforte e si commuoveva ascoltando Charles Aznavour e a 12 anni aveva deciso di battezzarsi («Per scelta personale»: i genitori se n’erano scordati...), oggi è una figura teatralmente impopolare, sfigurato nelle ambizioni personali e in crisi di ispirazione.
Attorno a lui si muovono vermicolanti legioni di pretendenti al trono, sia dall’opposizione (Marine Le Pen chiede le dimissioni immediate del presidente, forte dei sondaggi che danno il Rassemblement al primo posto, mentre il veterocomunista Mélenchon vuole nuove elezioni legislative e nuove presidenziali) sia dai ranghi stessi della destra liberale e di quello che fu il gollismo. Già, De Gaulle… che con la Quinta Repubblica aveva creduto di aver messo in sicurezza il potere con un semipresidenzialismo che aveva inghiottito e sopportato di tutto, comprese le stravaganti cohabitations, come quella tra Mitterrand e Chirac, poi fra Mitterrand e Balladur e infine tra Chirac e Jospin. Ma anche la Quinta Repubblica mostra ormai la corda. Ai confini del consenso che Macron aveva addensato attorno alle classi più abbienti si staglia oggi un malcontento che la Francia storicamente conosce bene da sempre. Dopo i Gilet Gialli, oggi la protesta si preannuncia ancora più radicale. Il frastagliato movimento di piccoli borghesi e giovani proletari che assedia l’Eliseo si fa chiamare bloquons tout, “blocchiamo tutto” e davvero intende farlo: treni, aerei, bancomat, carte di credito, uffici pubblici, una jacquerie che dal medioevo si ripresenta ogni volta in forme diverse. Come quando i francesi boicottarono il referendum sulla costituzione europea promosso da Giscard D’Estaing o quando i portuali trotzkisti di Calais votarono per protesta Jean Marie Le Pen affondando il più civile e lungimirante governo che la Francia avesse avuto dal dopoguerra, quello dell’ugonotto socialista Lionel Jospin, inventore dell’invidiato welfare d’oltralpe, delle 35 ore, del sistema sanitario – all’epoca - migliore del mondo.
Lo scenario di oggi mostra una Francia délabré, acciaccata e sofferente, attraversata da inaccettabili diseguaglianze sociali e da altrettanto inaccettabili privilegi di casta riservati agli elettori ad alto reddito. Quel “macronismo in un solo Paese” che ha portato alla disfatta di tre governi in un solo anno e la caduta di credibilità di un presidente. In queste ore si ama dire che la Francia si sta italianizzando, che dovrà imparare quel gioco di alleanze e di precarietà che consente alle fragili coalizioni di governare che è proprio dello spirito italiano. Ma evitiamo per favore quei sorrisi di divertita commiserazione di fronte alle inconfutabili difficoltà dei cugini francesi. Già a suo tempo li spesero malamente Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sbeffeggiando pubblicamente il presidente dimissionario Berlusconi, e non fu certo un gesto di eleganza politica. Meglio continuare a guardare alla Francia non come l’avversario di un derby ma come il grande Paese senza il quale l’Europa non ci sarebbe. E con il quale bisogna rimboccarsi insieme a tutti gli altri le maniche per ricostruirla dalle fondamenta.
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