giovedì 23 febbraio 2023
La testimonianza in prima persona di Damsa: molte donne hanno lasciato l'impiego e per loro è difficile sopravvivere. Sono preoccupata, se i divieti si estendono come potrò continuare?
«Io, infermiera a Kabul, sfamo 14 familiari. E se perdo il lavoro?»

Illustrazione di Stefano Misesti

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Qui di seguito pubblichiamo la testimonianza di Damsa, infermiera, arrivata ad Avvenire attraverso Emergency. Damsa si è diplomata a fine dicembre 2022 nel corso di formazione on the job organizzato da Emergency per gli infermieri, sia giovani donne sia uomini, che ora lavorano all'ospedale.

Sono un’infermiera del Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency, a Kabul. Mi chiamo Damsa, ho 26 anni, sono nata a Kabul, dove vivo con la mia famiglia, ma siamo originari della provincia di Parwan. Ho scelto di studiare per questa professione perché il mio desiderio è poter aiutare la mia gente e il mio Paese. Nonostante il conflitto si sia formalmente concluso, mi è capitato spesso di curare persone vittime di attacchi terroristici. Ancora oggi il 99% delle ammissioni nel Centro chirurgico di Emergency in cui lavoro è rappresentato da “vittime di guerra”: feriti da arma da fuoco, da taglio ed esplosioni.

Nel 2022, ad esempio, abbiamo gestito tra gli altri casi, per ben 29 volte, un afflusso di pazienti che richiede procedure di interventi di urgenza straordinaria in seguito a esplosioni e attentati, per un totale di oltre 380 pazienti.

Provo una grande tristezza per tutte le donne del mio Paese. È una situazione difficile: non riusciamo a immaginare che cosa sarà del nostro prossimo futuro. Dopo gli ultimi decreti siamo ancora più preoccupate e ci sentiamo sempre sotto la lente d’ingrandimento. Ci capita di essere fermate per strada e ricevere domande come “Perché sei in strada da sola? Dove stai andando?”. Ciò rende le nostre giornate pesanti e piene di pensieri. In molte hanno dovuto lasciare il lavoro, come mia cugina: è un architetto e lavora nel settore privato. Era l’unica a portare a casa uno stipendio e ora la sua famiglia sta lottando per riuscire a sopravvivere. Anche io sono preoccupata. Siamo in 14 a casa e sono l’unica a lavorare, quindi il fatto di avere abbastanza cibo per ogni giorno dipende da me. Infatti anche i maschi della mia famiglia hanno perso il lavoro.

Poiché le pazienti donne possono essere trattate solo da personale femminile, se il divieto di lavorare si estendesse anche all’ambito sanitario, ciò significherebbe impedire alle afghane di ricevere le cure di cui hanno bisogno, violandone perciò il diritto alla salute oltre che impedendo loro di contribuire allo sviluppo del Paese, che versa in una crisi economica terribile che influisce anche sul sistema sanitario e quindi sull’accesso alle cure di tutti gli afgani in generale. Come donna, in prima persona, io stessa avrei paura di ammalarmi perché saprei di non poter ricevere le cure appropriate e così temo anche per le donne della mia famiglia, e le mie colleghe.

Nel mio lavoro in terapia sub intensiva mi occupo anche di pazienti uomini non senza difficoltà dovute a scetticismi e questioni sociali, ma credo sia fondamentale per continuare a far passare il messaggio che il diritto alla salute viene prima di qualunque altra norma.





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