martedì 17 ottobre 2023
La presidente dei Focolari: «La preghiera predispone il cuore a guardare l’altro per quello che è: una sorella, un fratello che ha visto morire migliaia di persone del suo popolo». Living peace
Margaret Karram, presidente del movimento dei Focolari

Margaret Karram, presidente del movimento dei Focolari - Javier Garcia

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Il cuore lacerato, lo sgomento che sembra strangolare ogni ipotesi di pace. Ma è un attimo, perché neppure l’orrore può fermare la speranza cristiana, perché la chiamata alla fraternità non può essere spenta neanche dal buio della violenza più truce. Margaret Karram, dal 2021 presidente del Movimento dei Focolari non nega di aver provato «sgomento e desolazione, oltreché tantissimo dolore» di fronte all’escalation della violenza in Medio Oriente.

«In un attimo – spiega – ho visto crollare tutti gli sforzi portati avanti con tanta fatica per più di settant’anni, per costruire la pace tra i due popoli». Esiste però un altro effetto, diametralmente opposto malgrado sia legato alle stesse immagini di terribile violenza su civili e bambini. È il richiamo al desiderio di una pace giusta in virtù della quale vengono rispettati i dritti di ciascuno. «La guerra non porta a nessuna soluzione, come ha detto papa Francesco. La storia ci insegna che non è una strada percorribile, dobbiamo trovarne altre, e il dialogo è uno strumento indispensabile per riportare giustizia e avviare percorsi di riconciliazione». Va in questo senso, naturalmente la Giornata di preghiera e digiuno di ieri.

«La preghiera predispone il mio cuore, il nostro cuore a guardare l’altro per quello che è: una sorella, un fratello che sta soffrendo, che ha visto morire migliaia di persone del proprio popolo. E questo vale per entrambe le parti. In questi momenti di comunione con Dio, siamo uniti nel chiedere la forza di essere strumenti di pace, di giustizia e di riconciliazione nel mondo. In un’intervista a Radio Vaticana, nel 2001, Chiara Lubich invitava a non lasciarsi tentare dall’odio, a non lasciar fare solo alla politica. Ha chiesto che “si preghi per imboccare la strada giusta secondo la saggezza e il buon senso”, che ci si dia da fare “per aiutare chiunque con qualsiasi mezzo perché l’amore è inventivo”».

Parole che rendono il senso dell’iniziativa di ieri. «Mi aspetto molto dall’invocazione che è salita a Dio da tutto il pianeta e che continua… perché sono certa che Dio sta muovendo cuori, mente e mani per distruggere la violenza e costruire la pace. In questo senso mi sono di conforto le parole di papa Francesco all’Udienza generale del 20 maggio 2020 in cui diceva che “gli uomini e le donne che pregano sanno che la speranza è più forte dello scoraggiamento. Credono che l’amore sia più potente della morte e che di certo un giorno trionferà, anche se in tempi e modi che noi non conosciamo”».

La crisi mediorientale tocca da vicino Karram che si definisce araba, cattolica, di nazionalità israeliana e di origine palestinese. «Se devo essere sincera – aggiunge –, anche se in questo momento il dolore che provo è così grande, sento che la mia identità più vera è essere cristiana. Soffro profondamente per il mio Paese, per entrambi i popoli, ma non sento di schierarmi, anzi mi chiedo in continuazione: cosa posso fare di più? Cosa posso fare per fermare le armi? Cosa posso fare affinché israeliani e palestinesi arrivino a vedersi veramente per quello che sono, rispettando ciascuno i valori e le ricchezze dell’altro?».

Le origini di Karram sono un intreccio di culture. «I nonni paterni sono nati in Galilea, a Nazareth, si sono sposati molto giovani e sono andati in Egitto. Nel 1914, ad Alessandria è nato mio padre che era il primogenito e ha vissuto lì per quattro anni. Dall’Egitto i nonni sono rientrati in Galilea e hanno avuto altri figli. Nel 1948, i miei nonni, insieme ai fratelli e alle sorelle di papà sono fuggiti in Libano, nella speranza di rientrare passata la guerra. Ma così non è stato, sono potuti tornare solo i nonni nel 1959, per il matrimonio di papà. Anche mia mamma e i suoi parenti sono palestinesi, ma nati e vissuti ad Haifa. Ho due sorelle e un fratello, due dei quali vivono tutt’oggi nella nostra città natale. Tutta la nostra famiglia ha acquisito la cittadinanza israeliana, mantenendo però l’identità araba».

Tornando all’oggi quanto sta accadendo è anche un invito alla conversione. «Sono convinta che per fermare il rancore nei cuori, bisogna iniziare a formare le persone al rispetto reciproco, alla pace e alla giustizia, fin dalla più giovane età. In Terra Santa la comunità dei Focolari è presente da oltre 40 anni e lì portiamo avanti percorsi, workshop artistici e azioni per bambini e ragazzi incentrati sulla conoscenza reciproca che favorisce una convivenza fraterna. Con i giovani e gli adulti lavoriamo mettendo a base dei rapporti il dialogo, sia a livello ecumenico che interreligioso. E a livello mondiale i giovani, ragazzi e bambini del Movimento dei Focolari, insieme all’associazione “Living peace” hanno lanciato un’azione che chiama a raccolta i loro coetanei a pregare per la pace alle 12 ogni giorno e in ogni fuso orario; poi propongono di riempire la giornata di gesti che costruiscano la pace nel cuore di ciascuno e attorno a loro; invitano a mandare messaggi di sostegno a bambini, ragazzi e giovani in Terra Santa e li incoraggiano a chiedere ai governanti dei loro Paesi di fare di tutto per raggiungere la pace».

Di fronte a tanto orrore la domanda è inevitabile: si può ancora credere nella pace? «Io credo che possiamo ripartire solo da Dio, il Dio della pace. Personalmente, cerco di restare in ascolto dello Spirito Santo perché mi indichi e ci indichi cosa possiamo fare di più per evitare una guerra lunga e sanguinosa, perché si aprano strade di dialogo, di rispetto dei diritti umani, perché cessino i combattimenti. Per questo credo nella forza della preghiera, e l’ho detto anche al Santo Padre al Sinodo al quale sto partecipando. Gli ho assicurato che, come Movimento dei Focolari, preghiamo e crediamo che Dio interverrà come diceva la colletta della liturgia dei giorni scorsi: “Il Dio onnipotente ed eterno che esaudisce le preghiere del suo popolo, oltre ogni desiderio ed ogni merito, aggiungerà ciò che la preghiera non osa sperare”».

Ma la preghiera da sola non basta. «È il fondamento, poi però occorre agire, seminare l’amore contro l’odio, ripartire dal rispetto per ogni persona e dare il nostro contributo per costruire società giuste e in armonia. Papa Francesco ha detto che occorre “il coraggio della fraternità”, cioè bisogna correre il rischio di andare verso l’altro non per distruggerlo, ma per costruire ponti. Potrebbe sembrare naïf in una situazione di violenza così grande, ma ne sono convinta: bisogna ripartire cambiando il cuore di ogni persona per risvegliare la coscienza e formarla al bene, a pensare secondo le categorie della pace. Poi sostenere il disarmo nel nostro cuore prima di tutto, ma anche cessando la produzione di armi». Si tratta di trovare il modo di alimentare la speranza. «Innanzi tutto – conclude Karram – attraverso la prossimità alle persone che vivono tutto questo sulla loro pelle. Ma se mi chiede dove trovo io la speranza, la trovo nella fede, in Gesù, morto e risorto. Con la Sua passione e la Sua risurrezione, il mondo è già redento; sta a noi camminare nella certezza che Lui ha vinto il mondo ed è sempre con noi. Ricordo che la nostra fondatrice Chiara Lubich, diceva che “la speranza è la virtù che ci fa vedere oltre le cose, che ci fa vedere il futuro e la bellezza delle cose che non sono ancora realizzate… e fa vedere il futuro come un bene, come un dono di Dio”».


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