Tutti divisi: la trattativa sui dazi fotografa un'Europa senza bussola
L’Ue ha rinunciato a innescare un braccio di ferro, che è invece l’unico parametro che Trump riconosce e teme. Ma per negoziare da posizioni di forza serve una vera direzione politica

Attento anche alla simbologia, Trump ha chiuso sui dazi con l’Unione Europea il “patto scozzese” in nemmeno un’ora, in un luogo ribattezzato “Trump Turnberry golf club”, dove i locali lo apprezzano per le munifiche mance da 50 sterline più di una volta date in passato. Con premesse simili, era difficile attendersi un successo per i Paesi europei dalla chiusura di questa trattativa. È una mancia anche quella concessa ai Ventisette Stati in cambio di duri sacrifici? L’impressione è quella.
Ci sono vari livelli dai quali si può guardare a quanto suggellato domenica nell’incontro fra il presidente Usa e Ursula von der Leyen, “numero uno” della Commissione Ue. Ci si può scagliare contro la prepotenza del leader della Casa Bianca, col suo stile da bullo abituato alle risse, che ha fatto macerie per ora della storica alleanza fra gli Stati Uniti e i partner europei e soprattutto del multilateralismo per decenni in voga. Vero, ma poco pratico: per altri 40 mesi ci sarà comunque lui a Washington. Allo stesso modo, in fondo è poco produttivo prendersela con gli errori nella trattativa da parte europea. Il fatto è che ogni negoziato rispecchia, in genere, le posizioni di forza; solo una visione strategica da parte di chi è “forte” può consentirne di allargarne semmai gli orizzonti. E in questa partita Trump partiva da una posizione di forza, in ragione della quale l'ha dominata imponendo una scelta arbitraria e ingiustificata (dando persino l’idea di essere generoso, rinunciando ai paventati livelli del 50 o 30 per cento): sapeva che noi europei siamo più divisi e, quindi, ha potuto spingere il pedale dell’acceleratore più e meglio.
Il dato, innegabile, resta quello della debolezza strutturale dell’Unione ed è per questo che la vicenda dazi potrebbe anche portare con sé un risvolto positivo, se facesse maturare nei leader europei la consapevolezza di dover cambiare passo su questo fattore. Ma questo vale ormai nel medio-lungo termine. Così come in questo lasso di tempo si capirà se il tycoon ha fatto davvero l’interesse dell’America first o se, invece, l’impatto delle tariffe ricadrà sul Paese che le impone, come diversi sostengono. Nell’immediato c’è da fare i conti con le conseguenze economiche dei dazi al 15% (con l’esclusione di acciaio e alluminio, soggetti a quote aggiuntive) per le nostre imprese e famiglie. Certo il pensiero va subito alle parole del ministro Giorgetti, che di recente aveva detto che un livello sopra il 10% non sarebbe stato sostenibile, il che fa suonare decisamente stonato il primo commento positivo della premier Meloni, subito tornata però a batter cassa poi con Bruxelles sugli aiuti necessari ora per reggere la “botta”. C’era probabilmente pretattica anche in quella frase del titolare dell’Economia e, tutto sommato, un 15% (in realtà di più, al 20% o oltre, visto il dollaro debole) potrebbe essere ancora gestibile, specie in alcuni settori meno esposti. Anche se va ricordato che si innesta in un’economia già prostrata dagli choc, ripetuti, della crisi finanziaria del 2009 e poi della pandemia e che, quindi, fiaccherà ancor più il sistema.
Con tutta evidenza l’Ue più che altro ha voluto rinunciare a un confronto aspro, a innescare un braccio di ferro, che è invece l’unico parametro che Trump riconosce e che teme. L’annunciato “bazooka” da circa 90 miliardi di ritorsioni è rimasto nel cassetto e non si capisce allora perché averlo sbandierato prima. In ragione di questa rinuncia, resta incomprensibile l’arrendevolezza mostrata in precedenza sugli altri dossier, vedi le tasse per le multinazionali tech americane e tutta la partita delle spese della Nato per la difesa, col nostro impegno - sin troppo autoproclamato dall'imbarazzante linea del segretario Rutte - a portarle al 5% del Pil. Trump sembra così aver vinto su tutta la linea, una sensazione rafforzata dall’impegno europeo – non bastassero già i dazi – a investire e acquistare gas e altri beni Usa (armamenti compresi) per ben 1.350 miliardi di dollari nei prossimi anni, in una sorta di neo-colonialismo economico. Impegno peraltro tutto da capire, dato che Bruxelles non fa acquisti o investimenti diretti: un altro “effetto annuncio” utile a Trump, più che altro? Sul piano strategico, poco chiaro resta pure l’aver fissato all’immediata vigilia il summit Ue-Cina, alla fine rivelatosi un flop: d’altronde non appare certo vincente la scelta di riaffermare l’esigenza di mercati aperti puntando su un partner come Pechino, la cui invasione di prodotti in Europa è larga parte del nostro problema dei commerci.
L’Europa avrebbe in realtà gli elementi per negoziare da posizioni di forza, ma per essere tale questa ha bisogno di essere basata su una direzione politica. Senza una vera leadership continentale condivisa (a partire dalla capacità di accordarsi su una strategia industriale profondamente rinnovata, per i prossimi decenni), non resta che ridursi quasi a rallegrarsi per un 15%. Con la speranza che, rispetto ai “ponti” che si volevano costruire con gli Stati Uniti, il nostro sistema produttivo non si ritrovi invece a finirci, sotto quei ponti.
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