Sigonella 40 anni dopo: i terroristi, la Delta Force, la vedova

Il 10 ottobre '85 gli Usa dirottano in Sicilia i sequestratori dell'Achille Lauro. Roberto Pennisi era il pm di turno: «Abbas fu lasciato andare, come al Masri»
October 9, 2025
Sigonella 40 anni dopo: i terroristi, la Delta Force, la vedova
Un aereo Nato atterra alla base di Sigonella negli anni '80
«Quella notte non c’era vento, eppure i cespugli vicino alla pista si muovevano…». Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985 a Sigonella atterra un aereo civile egiziano. E’ da poco passata la mezzanotte, il volo è stato appena intercettato dai caccia americani decollati da una portaerei, che lo hanno costretto a fermarsi nella base siciliana. A bordo ci sono i 4 dirottatori palestinesi della nave da crociera Achille Lauro. Prima di ottenere il salvacondotto e liberare gli ostaggi hanno ucciso a sangue freddo Leon Klinghoffer, disabile e cittadino statunitense di origine ebrea. Quando la Casa Bianca lo scopre, dà ordine di prendere a qualsiasi costo il gruppo. Dietro il Boeing egiziano atterra un C130 che viaggia in silenzio radio. Quando tocca terra, ne escono almeno 60 uomini della leggendaria Delta Force, punta di diamante delle forze speciali americane, che circondano l’aereo dei palestinesi. I cecchini si appostano e si mimetizzano nella macchia mediterranea. Sotto il velivolo sono però già arrivati i carabinieri, anche loro con le armi in pugno: la tensione sale e il rischio di una sparatoria tra alleati si fa concreto.
Nell’autunno 1985 Roberto Pennisi ha 33 anni e fa il magistrato a Siracusa. E’ lui di turno quella notte: dalle ordinarie indagini sul territorio si trova catapultato al centro di una crisi internazionale. Quarant’anni dopo, una carriera prestigiosa da pm antimafia alle spalle, racconta ad Avvenire quelle ore frenetiche, e di come si trovò faccia a faccia con l’odio che già allora lacerava il Medioriente. «Mi ero coricato tardi, perché in quel periodo indagavo sullo sfruttamento delle prostitute che affollavano il lungomare di Ortigia: dietro c’era un’organizzazione mafiosa. Non immaginavo quello che sarebbe capitato. Mi svegliò nel cuore della notte il tenente del nucleo radiomobile dei carabinieri. Mi disse: dottore, a Sigonella ci sono i 4 sequestratori dell’Achille Lauro, dovrebbe andare a vedere. Sta scherzando, gli dissi. E lui: non mi permetterei mai. Così indossai una camicia bianca e una giacca blu leggera, ricordo che faceva ancora caldo: salii in macchina e partimmo». La leggenda vuole che sulla pista l’aereo fosse circondato da due cerchi concentrici: carabinieri più vicini, Delta Force all’esterno. «Niente di tutto questo – sbotta Pennisi – Lasci perdere quella immagine, è solo una ricostruzione. Quando arrivai mi trovai di fronte un vero marasma. Carabinieri in pista, un camion dell’esercito a sbarrare la strada al jet: dal portellone di prua spuntava la canna di un mitra. Gli americani erano nascosti: avevano già scavato delle buche ed erano pronti all’assalto». Sono momenti in cui basta un movimento sbagliato per scatenare il peggio («Sarebbe finita molto male, i Delta erano armati pesantemente» ricorda Pennisi), ma il magistrato mantiene il sangue freddo. «L’aereo era atterrato nella parte italiana della base, quindi era sotto la mia giurisdizione. C’era già un’inchiesta della procura di Genova sul sequestro dell’Achille Lauro, ma io, come autorità giudiziaria del luogo, ero competente per gli atti urgenti. E cosi feci quello che dovevo».
Per prima cosa, Pennisi convoca il comandante del reparto americano. «Mi trovai di fronte un omone di 1,90, accompagnato da un colonnello di colore ancora più alto. Erano il generale Carl Steiner e il suo attendente. Mi dissero che a bordo dell’aereo c’erano gli assassini di un americano, e che quindi loro dovevano catturarli e portarli negli Usa. Lo spiegò in tono cordiale e rispettoso e io, in modo altrettanto cortese, replicai che toccava a me prenderli in custodia e, eventualmente, mandarli a processo: il delitto era stato commesso su una nave italiana». Il generale, spiazzato dalla fermezza di quel giovane magistrato, prende tempo e si consulta con il Pentagono. Tra Roma e Washington intanto ci sono scambi non troppo diplomatici, Bettino Craxi tiene duro. Tutto però passa sopra la testa di Pennisi, lasciato solo a fronteggiare gli ufficiali della Delta Force. «Ogni tanto provavo a chiamare i vertici delle forze dell’ordine, ma non si trovava nessuno... – sorride Pennisi -. Dopo un po’ Steiner tornò da me e per fortuna accettò di ritirarsi. Ma prima si fece garantire che quei quattro avrebbero fatto i conti con la giustizia italiana (furono poi condannati, ndr). Io dissi: glielo prometto generale, se sono colpevoli saranno puniti. Mi fece il saluto militare, si voltò e diede ordine ai suoi di risalire sul C130. I Delta uscirono dai cespugli e se ne andarono così com’erano venuti». I quattro vengono presi in consegna dai carabinieri. «Me li ritrovai davanti, uno aveva la faccia di un bambino. Non riuscii a trattenermi e gridai loro come avevano potuto uccidere un indifeso. Non dimenticherò mai la sua risposta: “Tu non puoi capire cosa si prova ad avere fratelli e genitori massacrati nel campo profughi di Sabra e Chatila (la strage commessa a Beirut Ovest da milizie filo israeliane, ndr). In quel momento compresi che il conflitto mediorientale non si sarebbe mai risolto. La storia, purtroppo, mi sta dando ragione». Con l’arresto dei sequestratori il caso sembra risolto, ma spunta la sorpresa. «Mi dissero che a bordo dell’aereo c’erano altre due persone. Uno era un diplomatico egiziano che faceva un baccano incredibile chiedendo di essere lasciato ripartire, l’altro era Abu Abbas. Io non sapevo chi fosse. Mi spiegarono che era il capo del gruppo, che c’erano intercettazioni che lo provavano. Un uomo della Cia mi gelò: “Lo sanno tutti tranne lei, dottore. Compresi i vostri servizi segreti che hanno i testi delle conversazioni…”». Pennisi a quel punto chiede conferme, che però non arrivano. I servizi negano. «Allora in due ore gli americani volarono in ambasciata a Roma e mi portarono quelle intercettazioni». Il magistrato sta per salire sul Boeing per arrestare Abbas, quando lo informano che da Genova sono arrivati i colleghi titolari dell’inchiesta. «Da quel momento in poi non ho più avuto il controllo della situazione. Abbas fu lasciato libero di ripartire. Fu una decisione del governo, ma io non ho rimpianti. Anzi compresi la scelta, perché si trattava di ragion di Stato: liberiamo Abbas per evitare attentati in Italia. C’era stato l’attacco a Fiumicino nel ’73, e purtroppo il dicembre successivo ce ne fu un altro. La scelta quindi non pagò, ma fu comprensibile. Ripeto, ragion di Stato, frutto di valutazioni delicatissime, prese in nome della sicurezza nazionale». Il parallelo viene da sé: «Ci sono analogie con il caso Almasri, se mi è concesso. Solo che in quest'ultimo caso potevano dirlo subito…» ironizza Pennisi. Ma il suo tono torna a incupirsi quando scatta l’ultima drammatica istantanea di quello stallo durato ben 48 ore. «C’era la necessità di riconoscere i terroristi prima dell’arresto. Così gli americani portarono a Sigonella la vedova di Klinghoffer con un volo militare. Lei scese, li indicò. Quattro volte il dito puntato, poi quattro sputi. Se ne andò senza una parola, senza salutare. Lo sguardo grave, terreo: mi sembrò una delle Erinni (la figura mitologica che incarna la vendetta, ndr)». Un’apparizione da tragedia greca, prima che sulla crisi di Sigonella calasse il sipario. «Alla fine presi la giacca e tornai alla macchina con cui ero arrivato: dentro c’era ancora il tenente che mi aspettava. Lo guardai e gli dissi: fa freddo, andiamo a casa».

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