martedì 12 maggio 2015
​Fu il figlio Salvatore a indagare da solo e a fare riaprire le indagini sull'omicidio di Francesco Vecchio nel 1990, dopo che l'inchiesta era stata rchiviata nel 1998.
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«Ho dovuto fare io l’investigatore per cercare giustizia sull’omicidio di mio papà». Così si sfoga Salvatore, figlio di Francesco Vecchio, capo del personale dell’acciaieria Megara, una delle più importanti del Sud, ucciso da “cosa nostra” il 31 ottobre 1990, insieme all’amministratore delegato,  Alessandro Rovetta. Delitto ancora senza mandanti ed esecutori. «Un fascicolo addormentato – denuncia Salvatore che indagando da solo è riuscito a far riaprire le indagini – è stata come una dolorosa macchina del tempo». Ma per ora senza grandi risultati. Ieri Acireale, la città di Francesco Vecchio, “Ciccio” per gli amici, gli ha dedicato una piazza. «Sono molto contento – commenta il figlio – quella piazza è un luogo di aggregazione di tanti giovani. È importante mantenere la memoria e per questo mi impegno con Libera andando a parlare nelle scuole, nelle parrocchie. Ma non basta se non è accompagnata da verità e giustizia». Parole centrali nella sua vita. «A settembre compio 52 anni, l’età di papà quando è stato ucciso», riflette con la voce incrinata. Anche lui fa il capo del personale, all’ospedale pediatrico Bambino Gesù, dove ha anche realizzato un progetto di lavoro per detenuti. «Come papà sono sempre stato appassionato di diritto del lavoro. Lo sento al mio fianco...». Ma resta quella domanda che da 25 anni non ha risposta. «Dentro di me so chi è stato. Ma penso di avere diritto a una verità processuale ». Per questo nel 2007 decide di indagare da solo. Acquisisce il fascicolo e con grande sorpresa scopre che l’indagine era stata archiviata nel 1998. «Ma nessuno mi aveva avvertito». La sorpresa aumenta quando trova «contraddizioni, piste sbagliate: non voglio pensare che volessero coprire qualcuno, ma sicuramente c’è stata tanta trascuratezza». Come su alcuni documenti. Il primo è il verbale di interrogatorio dei primi anni ’90 del collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Ferone. «Diceva che erano stati quelli delle cooperative che svolgevano lavori per la Megara. Risultavano impiegati dei detenuti, ma papà scoprì che, pur pagati, non venivano mai a lavorare. Così impose rigidi controlli. Erano cooperative legate al clan Santapaola...». Ferone però torna a delinquere, arrivando a uccidere Carmela Minniti, moglie di Nitto Santapaola, per vendicarsi della morte del padre e del figlio. «A questo punto esce dal sistema di protezione. Non viene più creduto. E le rivelazioni su papà non vengono verificate, né approfondite. Agli atti non c’è nulla». Ma Salvatore nel suo inedito lavoro di investigatore trova nel fascicolo anche un verbale del 1994 di Maurizio Avola, lo storico “pentito” del clan Santapaola. Ascoltato 21 anni fa a Messina «dice di essere disponibile a parlare dell’omicidio. Mi aspetto di trovare un suo successivo interrogatorio. E invece non c’è nulla». A questo punto ottiene che l’indagine venga riaperta. E finalmente Avola viene interrogato. «Riferisce di essere stato presente a un colloquio tra Santapaola e Aldo Ercolano, altro boss catanese. Parlavano dei tentativi per prendersi la Megara, e della netta opposizione di Roveda e papà: tenevano duro malgrado le minacce. Così decisero di farli uccidere. Avola fa il nome del killer ma quando questo viene interrogato nega. E finisce lì». Nessuna nuova indagine. «I magistrati mi hanno detto che senza un altro “pentito” non si potrà mai sapere nulla. Ma come, così si fanno le indagini? – si sfoga ancora Salvatore – Senza collaboratori? ». Eppure gli elementi emersi grazie al suo impegno sono importanti. L’omicidio appare con chiarezza deciso dal clan Santapaola. «Erano condannati a morte perché avevano cambiato il sistema, erano un ostacolo». Cosa nostra puntava a quell’azienda, l’unica allora in Sicilia a produrre il tondino per il cemento. E cemento vuol dire edilizia. Si spiega anche così la violenza di quell’omicidio. Le cronache di allora parlano di «una vera e propria tempesta di fuoco». Aggiungendo: «Pochi i dubbi che sia un avvertimento mafioso». Preceduto da molte minacce. «Papà aveva tentato in tutti i modi di tener fuori la famiglia. Ma una volta risposi io a una telefonata. La ricordo bene, la voce diceva che se papà non avesse smesso ci avrebbero ammazzati». Ma Vecchio non cede pur sapendo a cosa andava incontro. «Papà, vittima innocente di mafia, ha avuto la sola colpa di non volersi piegare al ricatto e di voler rimanere libero e onesto». Lo si capisce dal suo viso sereno in una delle ultime foto. Un ricordo che Salvatore tiene in vita grazie all’incontro con don Luigi Ciotti e al cammino con tanti altri familiari. Ma non può bastare. «Io sono vittima, ma anche cittadino e ho il dovere di impegnarmi per quei valori per i quali papà è morto. Ma ho anche il diritto alla verità e alla giustizia».
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