domenica 1 ottobre 2023
La denuncia degli ispettori delle Nazioni unite: così uno degli esponenti della cosiddetta guardia costiera libica gestisce affari illeciti e violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti
Un centro di detenzione in Libia per immigrati irregolari

Un centro di detenzione in Libia per immigrati irregolari - .

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In 289 pagine viene fotografato il sistema di colui che, in diverse sentenze in Italia è indicato come “il peggiore dei carcerieri”. Aiutato dai due cugini continua a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando Il circuito chiuso che coinvolge trafficanti e guardia costiera libica nella cattura dei migranti, a terra e in mare, è molto di più che una spirale di abusi. Ci sono le prigioni segrete. C’è il controllo sul transito e il contrabbando di petrolio. E un tesoro da nascondere all’estero, aggirando le sanzioni grazie alla copertura del governo e della magistratura libica.

È un rapporto monstre quello appena chiuso del Panel of experts dell’Onu, gli investigatori incaricati dal Consiglio di sicurezza di scoprire le trame libiche e consegnare i risultati al Palazzo di Vetro e alla Corte penale internazionale. Un documento di 289 pagine, corredato da una montagna di allegati, che rimanda a decine di altri atti per un totale di centinaia di fascicoli. La Corte penale dell’Aja ha già firmato sei mandati di cattura per crimini di guerra e crimini contro i diritti umani. I nomi sono ancora riservati, ma la lettura di questo documento, ottenuto da Avvenire, fornisce parecchie indicazioni. Il protagonista principale è sempre lui: il comandante Bija. L’ascesa è avvenuta dopo la visita segreta in Italia nel maggio 2017, nonostante fosse stato indicato da documenti Onu e da un dossier del Centro Alti Studi del Ministero della Difesa, come uno degli ufficiali della cosiddetta guardia costiera libica maggiormente coinvolto in affari illeciti e violazioni dei diritti umani.

Una carriera inarrestabile, all’interno delle forze armate e ai vertici della potente mafia dell’ovest. Se pochi anni fa era l’astro nascente del “ Libyagate”, ora ne è il perno. Un sistema che si regge sul ruolo dei cugini di Bija, i Kashlaf e Osama Al-Kuni, che in diverse sentenze in Italia contro torturatori in Libia, è indicato come “il peggiore dei carcerieri”. Ognuno di loro è indicato con un codice, al quale corrispondono le sanzioni internazionali, a cui erano già sottoposti ma per i quali si chiede un inasprimento. “ Il Gruppo di esperti – si legge nel rapporto – ha stabilito che il comandante della Petroleum Facilities Guard di Zawiyah, Mohamed Al Amin Al-Arabi Kashlaf (LYi.025), e il comandante della Guardia costiera libica di Zawiyah, Abd al-Rahman al-Milad (LYi.026), insieme a Osama Al-Kuni Ibrahim (LYi.029), continuano a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando a Zawiyah”.

Il servizio di vigilanza petrolifera privata “protegge” la più grande raffineria libica, sempre a Zawiyah, dove però avviene da anni lo smercio di petrolio di contrabbando attraverso Malta in connessione con le mafie del Sud Italia e di quelle balcaniche. Nonostante Bija e compagni già dal 2018 siano stati inseriti nell’elenco delle sanzioni da Onu, Unione Europea, Usa e Regno Unito, e su di loro sia sempre attivo un alert dell’Interpol, “ hanno ulteriormente ampliato la rete includendo entità armate che operano nelle aree di Warshafanah, Sabratah e Zuwarah”. Per poterlo fare, il clan si è inserito nel contesto istituzionale, tanto che “ la rete allargata di Zawiyah comprende ora elementi della 55ª Brigata, il comando dell’Apparato di sostegno alla stabilità a Zawiyah, in particolare le sue unità marittime, e singoli membri della Guardia costiera libica”.

Una alleanza per un solo scopo: « Ottenere ingenti risorse finanziarie e di altro tipo dal traffico di esseri umani e dalle attività di contrabbando » Tutto ruota intorno alle prigioni per i profughi. « La rete di Zawiyah continua a essere centralizzata nella struttura di detenzione per migranti di Al-Nasr a Zawiyah, gestita da Osama Al-Kuni Ibrahim », il cugino di Bija identificato grazie ad alcune immagini pubblicate da Avvenire nel settembre del 2019. Il suo nome ricorre in quello di diverse indagini in Italia per traffico di esseri umani e torture. Sulla base “ di ampie prove di un modello coerente di violazioni dei diritti umani, il Gruppo di esperti ha rilevato - rincara il “panel” - che Abd al-Rahman al-Milad e Osama al-Kuni Ibrahim, hanno continuano a essere responsabili di atti di tortura, lavori forzati e altri maltrattamenti nei confronti di persone illegalmente confinate nel centro di detenzione di Al-Nasr”, allo scopo di estorcere “ ingenti somme di denaro e come punizione”.

Una filiera chiusa che, dopo l’intercettazione in mare, prevede il trasferimento nei campi di prigionia, dove i migranti dovranno pagare per uscire, e spesso venire di nuovo intercettati in mare per rientrare nel medesimo ingranaggio da cui avevano tentato di scappare. Un sistema che permette di massimizzare i profitti ottenendo fondi ed equipaggiamento da Paesi come l’Italia e poi altro denaro dai prigionieri per venire liberati. Dopo che le denunce avevano fatto il giro del mondo e in seguito alle pressanti richieste Onu per ispezionare il campo di prigionia ufficiale di Zawyah, il clan ha pensato di nascondere i crimini e continuare a guadagnare, replicando “ lo stesso schema di atti violenti commessi in una struttura di detenzione segreta per migranti, vale a dire il centro di detenzione di Al-Zahra, noto come “Prigione 55”, a Warshafanah”.

A dirigere il campo di prigionia è Mohamed Al Kabouti, che gestisce questa struttura con altri, “ tra cui Abd al-Rahman al-Milad”. Potendo contare sull’impunità, Bija non si nasconde. “ Il Gruppo di esperti - rivela il documento Onu - ha inoltre scoperto che Abd al-Rahman al-Milad e un altro ufficiale della Guardia costiera libica, Haytham al-Tumi, hanno abusato della loro posizione catturando illegalmente i migranti in mare e riportandoli in siti di detenzione irregolare sotto l’effettivo controllo di Al-Tumi, nell’ambito della loro attività privata a scopo di lucro di traffico e contrabbando di persone”. Ufficiali di giorno, impresari dell’orrore di notte. Nessuna pietà, neanche per i più piccoli. “Mentre erano detenuti illegalmente, quattro bambini sono stati sistematicamente utilizzati come manodopera schiava in fabbriche di costruzione di barche situate a Harsha e Zawiyah, di proprietà e gestite da Abd al-Rahman al-Milad e Haytham al-Tumi”.

Ma che fine fa il denaro? Bija lo starebbe ammassando in qualche forziere all’estero, nonostante gli sia vietato uscire dalla Libia. “Ha utilizzato - é l’altra accusa degli investigatori internazionali - documenti contraffatti delle Nazioni Unite nel tentativo di revocare il divieto di viaggio e il congelamento dei beni imposti nei suoi confronti”. Le coperture per raggiungere qualche paradiso fiscale non gli mancano, e arrivano fino al livello più alto della Giustizia a Tripoli. “Il Gruppo di esperti - scrivono ancora - è in possesso di un documento ufficiale libico, emesso il 28 settembre 2022 dall’Ufficio del Procuratore Generale, in cui si ordina alle autorità responsabili di rimuovere il nome di Al-Milad dal sistema nazionale di monitoraggio degli arrivi e delle partenze”.

Secondo gli ispettori Onu, aver rimosso il nome Bija dai controlli di frontiera “consentirebbe ad Al-Milad di lasciare la Libia con i beni in suo possesso, in violazione della misura del congelamento dei beni”. Il 25 gennaio 2023 le Nazioni Unite hanno chiesto alle autorità libiche di fornire informazioni aggiornate sull’effettivo blocco del patrimonio e del divieto di viaggio. Specialmente dopo che l’esponente del clan di Zawiyah ha ripreso “ le sue funzioni professionali nelle forze armate libiche, compresa la nomina a ufficiale presso l’Accademia navale di Janzour”. Promosso al grado di maggiore, “ significa che riceve uno stipendio militare dal governo, il che costituisce una violazione delle misure di blocco dei beni, a meno che i fondi non siano depositati su un conto congelato”. Sono trascorsi otto mesi da quando gli ispettori dell’Onu hanno chiesto chiarimenti al governo di Tripoli. « Le autorità libiche – precisano – non hanno ancora risposto».

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