sabato 22 giugno 2019
A Casal di Principe i familiari di chi è stato ucciso dalla camorra ma non è riconosciuto dallo Stato come vittima. Presentate 5 proposte per cambiare la legge
Le foto delle vittime innocenti della criminalità organizzata tappezzano le pareti di "Casa don Diana", villa confiscata alla camorra a Casal di Principe e ora gestita dal Comitato Don Beppe Diana

Le foto delle vittime innocenti della criminalità organizzata tappezzano le pareti di "Casa don Diana", villa confiscata alla camorra a Casal di Principe e ora gestita dal Comitato Don Beppe Diana

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«Mio fratello era un ragazzo dolcissimo che non aveva mai fatto del male a nessuno. Per anni siamo stati abbandonati e adesso che chiediamo che sia riconosciuto vittima innocente della camorra, lo Stato ci chiude la porta in faccia, facendoci, se possibile, più male di chi lo ha ammazzato. Vi sembra davvero giusto tutto questo? A me no».

È l’amaro sfogo, tra le lacrime, di Giovanna, sorella di Genovese Pagliuca, 24 anni, ucciso l’8 settembre 1992 dal clan dei “casalesi” per aver provato a difendere la fidanzata, sequestrata e violentata su ordine dell’amante del boss Bidognetti, che si era invaghita di lei ma era stata respinta. Non è stato riconosciuto vittima innocente, e l’istanza degli anziani genitori è stata respinta dal ministero dell’Interno per un’interpretazione rigida della legge. Infatti in un’informativa dei carabinieri, di poche ore dopo l’omicidio, risultava che Genovese proprio quel giorno era stato visto al bar con un ragazzo di 21 anni, allora incensurato e solo dopo anni riconosciuto interno al clan. Questo era bastato al Viminale per dire no. Nel 2018, il tribunale di Napoli ha ribaltato questa decisione riconoscendo Genovese vittima innocente e assegnando ai genitori il vitalizio previsto dalla legge. Vicenda non chiusa perché il ministero ha fatto a sua volta ricorso, come fa sempre. Ecco spiegato lo sfogo di Giovanna. Ma il suo non è l’unico caso. Sono 15 quelli che sta seguendo l’avvocato Gianni Zara, compreso quello di Genovese, ma, ci spiega, «solo in Campania sono una cinquantina e altrettanti in ciascuna delle altre regioni a presenza mafiosa». Alcuni hanno portato le loro testimonianze in un importante incontro col prefetto Raffaele Cannizzaro, Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso. Incontro promosso dal Comitato don Peppe Diana, da Libera Caserta e dal Coordinamento campano per le vittime innocenti. Incontro difficile, in un luogo simbolo, “Casa don Diana”, villa confiscata, che ha le pareti tappezzate con le grandi foto delle vittime innocenti, comprese quelle ufficialmente non riconosciute.

«Queste persone dovrebbero avere più attenzione – denuncia Valerio Taglione, presidente del Comitato –. Abbiamo chiesto ma abbiamo trovato una chiusura. L’incontro è la prima cosa, il negarsi amareggia». Un riferimento agli incontri chiesti al ministro Salvini e mai concessi. «C’è un debito non estinto verso i familiari delle vittime – aggiunge Gianni Solino, referente di Libera Caserta –. Ma se la legalità non si coniuga con la Giustizia rischia di essere una clava contro i più deboli».

Come Pasquale Pagano e Paolo Coviello, uccisi il 26 febbraio 1992, perché scambiati per esponenti di un clan rivale. Non sono stati riconosciuti vittime innocenti perché i fratelli di entrambi hanno commesso dei reati, non di tipo mafioso, ma più di dieci anni dopo la loro morte. Per il ministero facevano, dunque, parte di ambienti malavitosi. Assurdo. E Giuseppe, figlio di Paolo, non ci sta. «Ho rabbia. Noi abbiamo sempre vissuto dello stipendio di papà, lontani da ambienti camorristi». Rossana, figlia di Pasquale, non è meno diretta. «Io e mia sorella eravamo bambine, oggi diciamo sempre ai nostri figli che devono avere fiducia nella giustizia. Ma il ministero deve capire che non siamo solo fogli da firmare o istanze da rigettare, ma familiari di vittime innocenti che avevano il diritto di vivere». Questa volte le loro voci sono state ascoltate.

«Le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini e quindi è possibile sbagliare», ammette il prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto, incaricato di seguire le istanze del territorio. E sulla questione delle “frequentazioni” riconosce che «in certe zone chi non è stato almeno una volta controllato con un pregiudicato. E uno i parenti non se li sceglie». Poi un appello e una promessa. «Aiutateci anche voi. Da parte nostra non c’è malafede, ma se finora non si è guardato a fondo queste storie ora lo si faccia, perché dietro a un nome c’è una persona».

Una promessa che fa anche il prefetto Cannizzaro, da meno di un anno commissario. «Ho segnato i vostri nomi, se volete ci incontreremo ancora e se abbiamo sbagliato ci correggeremo». Poi anche lui afferma che «una frequentazione, un singolo episodio, per me non hanno significato». Spiega di aver presentato al sottosegretario Luigi Gaetti, 5 proposte di modifiche normative, in particolare per recuperare lo spirito solidaristico della legge. «Solidarietà vuol dire farsi carico subito delle esigenze dei familiari, come andare a scuola, all’università. I fondi li abbiamo ma la legge non lo consente. Così ci siamo ridotti a fare da bancomat, magari dopo una sentenza e dopo anni». Il dialogo coi familiari è finalmente aperto. Lasciamo anche le ultime parole a Giovanna Pagliuca. «Prefetto Cannizzaro accolga il nostro grido di dolore. Non si dimentichi di noi. La prego».

Una legge applicata con severità eccessiva

Le leggi a tutela dei familiari delle vittime innocenti delle mafie sono la 302 del 1990 e la 512 del 1999. Tra i motivi che portano a negare i riconoscimento c’è la tardività. La prima legge prevedeva che la domanda dovesse essere presentata entro due anni dai fatti, la seconda prevede 90 giorni dalla sentenza definitiva. Ma il ministero applica rigidamente la prima per i fatti precedenti al 1999, anche se la verità è emersa molto più tardi. Il secondo motivo è la parentela o affinità fino al quarto grado con persone coinvolte in fatti di mafia. Poi l’aver commesso reati gravati dal metodo mafioso. Infine è la non totale estraneità ad ambienti e rapporti delinquenziali, ed è il motivo che il ministero applica con eccessiva rigidità. Eppure una circolare del 2016 spiegava che andava applicato «nel caso in cui risulti la contiguità o l’appartenenza delle vittime alla criminalità organizzata».

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