mercoledì 20 giugno 2018
L'organizzazione mondiale della sanità ha deciso che la disforia di genere non è disturbo mentale. Ma i problemi restano
La sede dell’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra

La sede dell’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra

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La decisione dell’Oms di spostare i disturbi dell’identità di genere dall'elenco delle malattie mentali va salutata con soddisfazione. Ma lo sdoganamento nominale non toglie e non aggiunge nulla a un problema che conserva intatta la sua complessità diagnostica e il suo elevatissimo carico di sofferenza. Se è vero che la comunità scientifica era da tempo d’accordo sulla necessità di liberare la disforia di genere dalla gabbia delle patologie mentali, è altrettanto vero che ora sarebbe riduttivo considerare la transessualità semplicemente come una variabile ordinaria dell’identità sessuale. Non era questo l’intento dell’Associazione degli psichiatri americani che già nel gennaio scorso aveva provveduto a modificare, nel senso ieri approvato dall’Oms, il 'Manuale diagnostico statistico' dei disturbi mentali, punto di riferimento internazionale per tutti gli specialisti del settore. Cancellato lo stigma della malattia mentale, aperta la strada a una valutazione più serena e più rispettosa delle varie situazioni, i problemi delle persone rimangono.

E, per quanto riguarda l’Italia, non sarà impoverendo la legge e abbreviando l’iter delle procedure per la cosiddetta 'transizione di genere' – come ieri auspicato da qualche attivista transgender – che si aiuteranno le persone afflitte da questo disturbo. Anzi la legge italiana – la 164 del 1982 – una delle prime in Europa sul tema, che prevede tempi lunghi, accertamento rigorosi e interventi modulati tra piano terapeutico e piano legale, era stata pensata proprio per offrire procedure garantite alle donne e agli uomini coinvolti. Quanti sono? I disturbi della differenziazione sessuale riguardano in media una persona su novemila. Quindi in Italia circa 7mila individui. Minoranza esigua, certo. Solo che negli ultimi anni le richie- ste di 'transizione' negli otto centri italiani che seguono le linee guida del percorso previsto dall’Osservatorio nazionale sull’identità di genere, sono decuplicate. Effetto negativo delle teorie che predicano la fluidità di genere, smodata egolatria, tentativo di risolvere sofferenze interiori 'cambiando' sesso? Le letture degli specialisti non sono concordi.

Ma è proprio l’incertezza sulle cause a imporre cautela e a spiegare perché, prima di avviare qualsiasi percorso terapeutico, sono necessarie lunghe e scrupolose verifiche psicologiche. Se è vero poi, come dicono le statistiche, che otto casi di disforia su dieci rientrano al termine dell’adolescenza, qualsiasi accelerazione terapeutica potrebbe rilevarsi disastrosa. Gli specialisti riferiscono che oggi sempre più spesso sono i genitori a chiedere l’intervento di 'riassegnazione' per figli giovanissimi, 13-14 anni, magari solo perché «lui preferisce da sempre giocare con le bambole» oppure perché «da anni lei si veste solo con abiti maschili ». Confondere un 'semplice' caso di immaturità psicoaffettiva con un disturbo di genere conclamato da trattare come tale, rischia di ledere in modo irreparabile il già fragile equilibrio della persona. E il medico ha il dovere di richiamare la complessità e la delicatezza del problema. Come sarebbe grave sfruttare la decisione dell’Oms per autorizzare in modo allargato l’uso di farmaci come la triptorelina che blocca lo sviluppo puberale in attesa della 'riassegnazione' sessuale. Insomma, cancellare la classificazione psichiatrica della transessualità – certo ingiusta e riduttiva – è scelta ineccepibile, ma non può significare però in alcun modo una semplificazione dei percorsi in nome di un’ideologia libertaria che rischia di ignorare il baratro di dolore di chi è immerso nella confusione psicofisica derivante da una «non conformità di genere».

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