giovedì 16 marzo 2017
Il 21 marzo del 1978 scattò l'operazione Smeraldo, che fu poi annullata. L'ammiraglio svela i segreti del mancato blitz del Comsubin
Aldo Moro ostaggio delle Br

Aldo Moro ostaggio delle Br

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Il 16 marzo del 1978 le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro: nell’agguato di via Fani vengono uccisi cinque uomini della scorta. Cinque giorni dopo, il 21 marzo, scatta improvvisamente un piano per liberare il presidente della Dc. Il Comsubin (Comando subacquei e incursori) di stanza a La Spezia riceve un ordine urgente dal governo: «Alfa, attuare interno Smeraldo». Nel giro di 40 minuti le forze speciali della Marina sono pronte a partire, imbarcandosi sugli elicotteri della base di Luni. L’operazione Smeraldo, da condurre insieme ai carabinieri, viene però annullata alle 13, perché si scopre che Moro non è prigioniero vicino a Roma come avevano segnalato i servizi. L’episodio, rivelato da Francesco Cossiga nel 1991, fu confermato dal senatore Sergio Flamigni nel suo libro 'La Tela del ragno' (Kaos edizioni, 1998) e da alcune carte pubblicate nel 2003. Dopo 39 anni, per la prima volta, parla uno dei protagonisti di quel mancato e misterioso blitz.

L’ammiraglio in congedo Oreste Tombolini oggi coltiva la sua vigna a Grottaglie, in Puglia. Da ufficiale del Comsubin si trovò in prima linea durante il caso Moro. Ad Avvenire racconta così quei giorni di tensione. Ammiraglio, cosa accadde il 21 marzo? Parlare di date e orari è impossibile: è passato troppo tempo. Ricordo solo che in quei giorni stava per nascere mia figlia. Eravamo in costante stato d’allerta: arrivava l’ordine di partenza, prendevamo le armi e partivamo dalla base del Varignano. Non ci dicevano mai per dove. A volte gli elicotteri decollavano in una direzione e poi venivano deviati altrove. Ma sarà capitato almeno 7-8 volte di salire a bordo, anche in piena notte.

Quando arrivò l’ordine di partire, lei comunicò su un telefono riservato: «Al 50% l’ostaggio è in un casolare in zona Forte Boccea-Aurelia».

L’ordine arrivò da Roma. Vero, ci parlavamo su una rete protetta e non certo tramite walkie talkie. Che io abbia mandato quel messaggio però l’ho appreso dal libro di Flamigni. Può anche darsi che l’abbia fatto, ma non me lo ricordo.

Quel mattino lei dov’era?

Non c’erano i cercapersone e quindi eravamo sempre a disposizione. Se qualcuno si assentava doveva chiamare ogni due ore per sapere se c’erano novità. La nostra era una vita quasi monastica.

Circa un mese prima si svolse l’esercitazione 'Rescue Imperator' condotta da Gladio, con gli stessi reparti e gli stessi comandanti. Sembrò la prova generale dell’Operazione Smeraldo.

Gli stessi comandanti? Non mi ricordo e perciò non posso nemmeno negare. Non ho mai tenuto un diario…

Eppure qualcuno scrisse: «Richiedesi attivazione squadra K1 (Tombolini)».

Posso sorridere? In quel periodo non si scriveva niente, le cose erano talmente veloci che non c’era tempo.

Il dispaccio si chiudeva con «distruzione immediata»: forse qualcuno se ne è dimenticato...

Appunto. Ma anche ammesso che esistesse, io non me lo ricordo.

Non si ricorda nemmeno del lago della Duchessa, dove si svolse parte dell’esercitazione? È lo stesso del falso comunicato sul corpo di Moro.

Non rammento di esserci stato. In quei giorni siamo andati da tante parti. Anche nella zona di Roma, più di una volta. Potevamo andare in un casolare, un bosco, un fiume, un posto qualunque. E ce lo dicevano solo alla fine che era un’esercitazione.

Avete mai operato con i carabinieri durante le ricerche di Moro?

Vedevamo i carabinieri, ma anche la polizia. C’erano anche uomini in borghese ma non sapevo chi fossero. I carabinieri erano lì pronti, ma per fare cosa non si sa.

Che rapporto c’era tra Gladio e voi del Comsubin?

Ogni tanto alcuni dei nostri andavano a farne parte, ma non eravamo la stessa cosa. A me non è capitato di fare esercitazioni con Gladio, anche se sapevo che era un’opzione per le forze speciali.

In quel periodo eravate i meglio addestrati a liberare ostaggi.

Sì, allora non esistevano né i Gis (in realtà fondati giusto pochi giorni prima, il 6 febbraio ’78, ndr) né i Nocs. Avevamo capito qual era la nostra missione. Quando appresi dell’esito del caso Moro mi sentii con gli altri cercando di rimettere a fuoco i dettagli ma nemmeno loro erano in grado di farlo. Il tema era troppo delicato: stavamo attenti anche a quello che dicevamo fra di noi, perché potevamo influenzarci. Magari uno crede di ricordare bene e poi si accorge che sta ricordando male.

In questi anni non l’hanno mai chiamata a testimoniare?

No, non mi ha mai chiesto niente nessuno. Né magistrati né commissioni parlamentari.

Quando Moro fu ritrovato, ha pensato che forse avreste potuto salvarlo?

Certo, lo abbiamo pensato tutti. Se fossimo riusciti a entrare in azione qualcosa avremmo potuto fare. Anche se sapevamo trattarsi di una missione ad alto rischio. L’omicidio di Moro è andato di traverso a tutti, specialmente a noi che forse avremmo potuto cambiare il corso della storia. Il rimpianto c’è. Però consideri che avevo 28 anni. Mi toccavano delle responsabilità, ma poi ogni squadra aveva la sua specializzazione.

Qual era la sua?

Questo non l’ha mai saputo nemmeno mia moglie… Per le nostre famiglie è dura. Non ho nemmeno assistito alla nascita di mia figlia, sono arrivato dopo qualche ora. Era pericoloso girare in divisa, i figli andavano a scuola scortati. Le famiglie dormivano nella base: al mattino mia moglie si svegliava e non mi trovava nel letto. Capiva che ero partito perché mancavano spazzolino e schiuma da barba. Spesso non c’era il tempo di prendere nemmeno quelli. Ma nessuno si lamentava se avevamo la barba lunga...

*** Aggiornamento del 15 marzo 2018

Un mese dopo la pubblicazione di questo articolo su Avvenire e avvenire.it l'ammiraglio Tombolini è stato convocato a Roma dalla Commissione d'inchiesta sul caso Moro. Leggi qui la sua deposizione.


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