mercoledì 1 aprile 2020
Il frate Riccardo Pampuri e il monaco libanese Charbel Makhluf: hanno vissuto l’eroico nel quotidiano, come sta accadendo in questi giorni per tante persone colpite dal coronavirus
A sinistra frate Riccardo Pampuri. A destra  il monaco libanese Charbel Makhluf

A sinistra frate Riccardo Pampuri. A destra il monaco libanese Charbel Makhluf

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Lunedì, durante la cerimonia di benedizione del cantiere di FieraMilanoCity in cui sta nascendo il nuovo ospedale, l’arcivescovo Mario Delpini ha affidato «questo luogo di cura e di speranza alla intercessione del santo medico e frate Riccardo Pampuri e del santo monaco taumaturgo libanese Charbel Makhluf». Una scelta passata inosservata sui media, anche perché non sono in molti a conoscere queste due figure, ma che va illuminata perché altamente significativa.

Riccardo Pampuri, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1989, lavorò come medico condotto negli anni Venti del secolo scorso a Morimondo, prima di trasferirsi nella vicina Trivolzio per poi entrare nella congregazione dei Fatebenefratelli. Il "dottorino santo", come veniva chiamato dalla gente, ha offerto una luminosa testimonianza di fede e di generosa dedizione ai poveri che ha lasciato un segno indelebile, come dimostra la larga devozione popolare di cui è oggetto, confermata anche dai numerosi pellegrinaggi alla sua tomba a Trivolzio promossi in occasione dell’Anno giubilare indetto il primo maggio 2019, a trent’anni dalla canonizzazione. Pampuri è un figlio della terra lombarda, che alla cura delle malattie univa il soccorso alle necessità quotidiane dei contadini donando farmaci, indumenti e spesso anche denaro. Un santo semplice, medico dei corpi e delle anime, che ha vissuto un’esistenza tutta segnata dall’amore per Cristo e per gli uomini e ha lasciato in eredità frasi come questa: «Abbi grandi desideri, cioè desiderio di grande santità, ma fai anche le cose piccole, minime, con amore grande».

L’altra figura evocata da Delpini durante la benedizione del nuovo ospedale, il monaco Charbel Makhluf, è il santo più popolare della nazione libanese assieme al "grande padre" Marone. Morto nel 1898 e canonizzato da Paolo VI nel 1977, ha trascorso la sua esistenza nel nascondimento e nella preghiera, non ha lasciato scritti né ha promosso opere, la sua fama di santità – che va ben oltre i confini del Libano – è legata soprattutto alle migliaia di guarigioni avvenute in tanti Paesi del mondo e attribuite alla sua intercessione. Per questo motivo è oggetto di venerazione anche da parte di molti musulmani, che raggiungono in pellegrinaggio la sua tomba nel monastero di Annaya. Anche a Milano è molto popolare nella comunità libanese, e il 21 luglio scorso, in occasione della festa liturgica di Charbel, Delpini ha celebrato la Messa nella chiesa di Santa Maria della Sanità, in via Durini, affidata nel 2016 dal cardinale Angelo Scola alla comunità libanese maronita.

Due santi che hanno a che fare con la salute del corpo e dello spirito, dunque, due uomini che non brillano per gesta eroiche, che hanno detto il loro "sì" totale a Cristo dentro l’ordinarietà delle circostanze. Hanno vissuto l’eroico nel quotidiano, come sta accadendo in questi giorni per tante persone colpite dal coronavirus. Due figure a cui guardare in questo tempo di prova in cui ognuno di noi è sfidato a chiedersi cosa "tiene", cosa dà consistenza alla sua vita.



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