mercoledì 10 maggio 2017
Il presidente della Conferenza episcopale nigeriana racconta i drammi che sono all’origine di tanti viaggi della speranza: tra cristiani e musulmani molto è stato fatto ...
Testimone. Il vescovo di Jos, monsignor Ignatius Kaigama

Testimone. Il vescovo di Jos, monsignor Ignatius Kaigama

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«In Nigeria mi dicono 'piuttosto di morire qui io rischio e parto, so che potrei morire nel deserto o in mare ma forse no. E allora rischio per cercare una vita migliore, la sicurezza, la pace'». Queste le motivazioni dei migranti verso l’Italia e l’Europa, come spiega monsignor Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos, nel nord del Paese, presidente della Conferenza episcopale nigeriana e delle Conferenze episcopali dell’Africa occidentale. L’abbiamo incontrato a Lamezia Terme, dove ha partecipato ad alcuni incontri promossi dalla Caritas diocesana e dalla Comunità Progetto Sud di don Giacomo Panizza, protagonista di tanti progetti di integrazione dei migranti. Poi sarà a Roma e quindi con papa Francesco a Fatima, dove, ci dice, «pregherò Maria per la guarigione del mio Paese da tutte le sue malattie ». Con lui parliamo di Boko Haram, di dialogo tra cristiani e musulmani, di migrazione, di tratta di esseri umani, di sfruttamento delle ragazze. E lancia anche un appello ai ' clienti' italiani delle schiave del sesso nigeriane, spesso minorenni. «Dovrebbero chiedersi: se fosse mia figlia la tratterei così? C’è bisogno che le persone recuperino la propria umanità. Un essere umano non può essere trattato come un oggetto. Penso alle ragazze vendute sulle strade e ai ragazzi sfruttati sul lavoro». E aggiunge: «Noi preghiamo per la conversione di chi li sfrutta e di chi li compra. Ma la responsabilità è anche di chi è al governo in Nigeria e con la corruzione porta via i soldi provocando la povertà e favorendo così il fenomeno della tratta. Tutti, ad ogni livello, devono recuperare la propria integrità morale. Ed è molto importante – dice ringraziando don Giacomo – quello che state facendo per salvare i nostri ragazzi».

Da pochi giorni sono libere 82 ragazze sequestrate da Boko Haram. Una buona notizia, finalmente...
Davvero una bella notizia. Il loro rapimento è stata una tragedia immensa per tutta la Nigeria. Ma ci sono ancora tante ragazze nella foresta in mano a Boko Haram. Noi speriamo che tutte possano essere liberate, sia attraverso trattative che passi diplomatici.

Come mai c’è voluto così tanto tempo? Davvero si è fatto tutto?
È la stessa domanda che ci siamo fatti anche noi. Inizialmente durante il governo del presidente Goodluck, non erano nemmeno sicuri del rapimento e quindi hanno reagito quando ormai era troppo tardi. Poi con la venuta del presidente Buhari, una delle sue priorità è stata combattere Boko Haram. In parte c’è riuscito anche se non è stato ancora sconfitto totalmente. Ma anche la comunità internazionale non ha reagito subito con forza lasciando passare troppo tempo. Ora anche l’Onu e l’Europa hanno dato un aiuto.

Ma è possibile raggiungere la pace in Nigeria solo attraverso la forza?
Come dice sempre papa Francesco la guerra non porta mai la pace. Perché ci sia la pace ci vogliono la giustizia, un’equa distribuzione delle risorse, creare strutture nelle quali ogni nigeriano si senta rappresentato e sicuro, serve lavoro, lotta alla povertà. Boko Haram ha fatto emergere il malcontento dei nigeriani. Ha trovato un terreno fertile per la sua attività. Ora anche se sarà sconfitto militarmente, bisogna creare una giustizia sociale anche perché ci sono altri focolai, nel Delta del Niger e in Biafra.

È possibile una convivenza pacifica tra cristiani e musulmani?
In Nigeria il nord è a maggioranza musulmana, il sud a maggioranza cristiana. Mentre cristiani e musulmani del sud convivono pacificamente, tant’è che si sposano tra di loro, invece la situazione del nord è più complicato. Non si può dire che al Nord c’è una guerra tra musulmani e cristiani però c’è sempre una tensione molto alta. Molto è stato fatto e si sta facendo per cercare di costruire una convivenza pacifica e un dialogo però c’è ancora tanto cammino da fare.

Lei stesso è dovuto intervenire per placare gli animi della comunità cristiana, per evitare vendette...
È vero. Una domenica nella mia diocesi ci fu un attacco a una chiesa con l’uccisione di 14 persone. La prima reazione dei cristiani fu di rispondere alla violenza con la violenza. Io sono corso in quella chiesa, il tetto era crollato, c’erano ancora le persone morte. Tutta la gente era infuriata e era lì come per aspettare da me l’invito a combattere. Ho visto che c’era ancora il Santissimo, mi sono inginocchiato per tre minuti e allora si è fatto silenzio. Mi sono alzato e ho chiesto di recitare insieme il 'Padre nostro'. Poi ho detto «se volete andare a combattere ci saranno tanti altri morti oltre a questi 14. La pace non si costruisce così. Anche se ci fa male noi siamo cristiani e perdoniamo». E la situazione si è calmata.

Lei ha parlato di un Paese dove c’è violenza e ingiustizia. Anche per questo tante persone fuggono e molte arrivano in Italia, dove qualcuno parla di invasione, dicendo che devono tornare indietro.
Affrontano questo viaggio, sapendo di correre il rischio di morire, perché sognano luoghi di speranza. Io ringrazio l’Italia per l’accoglienza di tanti nigeriani, ma se si riuscisse a collaborare di più, creando anche nel mio Paese le condizioni favorevoli, sicuramente si ridurrebbe questa migrazione.

Cosa è venuto a vedere in Calabria?
Sono venuto per capire meglio la serietà di questo problema, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento delle donne. Ora che sono più cosciente capisco che è importante, con gli altri vescovi, far sapere alle persone. Bisogna in primo luogo far crescere l’attenzione in Nigeria. Soprattutto per i giovani. Anche con l’aiuto dell’Europa. Bisogna lavorare lì perché questo sfruttamento finisca. Ma poi quando giungono qui il primo dovere è di accogliere. Sono esseri umani e molti di loro non sono venuti di loro spontanea volontà ma per fuggire dalla povertà.

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