martedì 4 dicembre 2018
Nell'incendio del 2016 morirono 260 operai. L'azienda produceva per il marchio tedesco Kik. L'italiana RINA aveva certificato la sicurezza dell'impianto poche settimane prima.
Saeeda Khatoon nell'incendio ha perso il figlio 18 enne Ayan che nella fabbrica lavorava da 4 anni

Saeeda Khatoon nell'incendio ha perso il figlio 18 enne Ayan che nella fabbrica lavorava da 4 anni

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A sei anni dalla strage della Ali Enterprises in Pakistan, i familiari delle vittime e dei sopravvissuti sono in Italia insieme alle
organizzazioni per la difesa dei diritti umani, per la tappa conclusiva della Week of Justice, la settimana della giustizia
partita a Ginevra il 26 novembre e proseguita alla Bochum University e al tribunale di Dortmund, in Germania. Un'occasione per far conoscere in Europa lo stato dei procedimenti in corso, visto il coinvolgimento diretto nella vicenda di aziende eurpopee: la Ali Enterprises produceva per il distributore tedesco, KiK, ed era stata certificata come sicura dal revisore italiano RINA. Stamattina la delegazione è stata ricevuta, assieme a rappresentanti della Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association (Aeffa), l'associazione vittime dell'incendio, presso il ministero dello Sviluppo economico, dove ha inoltrato ai responsabili del Punto di Contatto Nazionale OCSE in Italia un’istanza contro RINA per aver fallito nell’identificare le lacune nelle misure di sicurezza solo poche settimane prima dell’incendio.

L'11 settembre del 2012 dunque scoppia un incendio nello stabilimento tessile della Ali Enterprises di Karachi, in Pakistan. Nella fabbrica i sistemi antincendio sono del tutto insufficienti: mancano scale, uscite di sicurezza, estintori. Il bilancio è terrificante: 260 morti: «Ho cercato di mettermi in salvo saltando dalla finestra dell’ammezzato da un’altezza di quasi 10 metri e sono caduto tra i cespugli», ha raccontato Shahzad Ali, che nella caduta si frattura in più punti una gamba. «Gli estintori venivano collocati solo nei giorni delle visite ispettive degli auditor e poi subito rimossi», è la testimonianza di Aleem Ahmed.

Condizioni diffuse in moltissimi stabilimenti del tessile e dell’abbigliamento – asiatici ma anche esteuropei - che riforniscono i grandi marchi e le griffe occidentali. Due mesi dopo, nel novembre 2013, un incidente simile nella fabbrica Tazreen in Bangladesh uccide più di 100 operai. L’anno successivo, aprile 2013, nel crollo del Rana Plaza a Dacca, capitale del Bangladesh, perdono la vita più di 1.100 lavoratori. «Esempi estremi ­– commenta la Campagna Abiti Puliti - delle condizioni disumane che caratterizzano il settore produttivo dell’abbigliamento. Tragedie come queste, che avrebbero potuto essere vitate, ci ricordano in tutta la loro spietata evidenza che i consumi del Nord del mondo nascondono un prezzo da pagare e che a pagarlo sono i lavoratori del Sud del mondo con la loro salute e a volte la loro stessa vita. Siamo qui oggi - spiega Deborah Lucchetti di Abiti Puliti - perché abbiamo due domande ancora senza risposta: di chi era la responsabilità di quelle morti? Cosa chiedono oggi le famiglie delle vittime perché sia ottenuta piena giustizia?». Lucchetti spiega che «lo scopo ultimo è riuscire a fare un passo avanti e migliorare il monitoraggio delle filiere perché il controllo è stato privatizzato, mentre c'è necessità di enti pubblici che verifichino e di sindacati dei lavoratori più forti, coinvolti direttamente nei processi».

Nella delegazione è arrivata dal Pakistan anche Saeeda Khatoon, il cui figlio di 18 anni, Ayan è morto nel rogo della Ali Enterprises, dove lavorava da 4 anni: «Abbiamo ricevuto un indennizzo parziale, ma vogliamo giustizia anche da parte di RINA, il revisore che ha rilasciato un certificato di morte: esigiamo delle scuse e un risarcimento completo. Vi chiediamo inoltre di far sentire la vostra voce verso quei brand e quelle aziende che, invece di fare il meglio per i lavoratori, permettono che accadano queste tragedie. Ho perso un figlio e voglio che nessuna altra madre debba patire la mia stessa sofferenza. Siamo ancora qui, a lottare, perché la sicurezza sul lavoro sia un diritto e non un privilegio». L'azienda italiana di auditing RINA services S.p.A. aveva rilasciato alla Ali Enterprises la certificazione SA8000, che attesta il rispetto di standard coretti in materia di sicurezza e di condizioni lavorative. L'ispezione all'origine della certificazione era stata condotta non direttamente da RINA, ma un'azienda terza pachistana. Sulle presunte responsabilità dell'azienda italiana è in corso un procedimento giudiziario presso il tribunale di Genova. A settembre si è svolta l'ultima udienza nelle indagini preliminari.

Ben Vanpeperstraete, coordinatore della Clean Clothes Campaign, ha aggiunto: «Gli incendi possono accadere ma quello alla Ali Enterprises era evitabile. La conseguenze tragiche del rogo potevano essere scongiurate con allarmi e estintori funzionanti, con uscite di sicurezza adeguate, e una scala di emergenza. RINA deve chiedere scusa alle vittime e deve risarcire i danni, ma è fondamentale che si compiano delle azioni strutturali, perché quello di Karachi non è stato un evento isolato». E chiede, vista l’inefficacia delle certificazioni di sicurezza: «C'è un problema sistemico: chi controlla i controllori?».

Carolijn Terwindt del ECCHR (European Center for Costitutional and Human Rights) spiega che «c'è stata una causa a Karachi sulle responsabilità delle aziende europee, ma il procedimento non è andato avanti. Quindi abbiamo presentato una causa civile al Tribunale di Dortmund, dove ha la sede legale la KiK, distributore tedesco per cui la Ali Enterprises produceva i jeans e che avrebbe dovuto verificare le condizioni di sicurezza del finitore. In Italia, la ECCHR sostiene la causa penale per la responsabilità della RINA, in corso a Genova, per il reato di falsificazione della certificazione rilasciata alla fabbrica. Ci siamo inoltre rivolti alla Forensic Architecture di Londra - informa Carolijn Terwindt - per effettuare la simulazione dell'incendio che ha distrutto la fabbrica tessile e dimostrare l'inadeguatezza delle misure di sicurezza. Il video della simulazione è stato consegnato come prova al PM di Genova, ma è visibile online da tutti. Si intitola "Outsourcing Risk", delocalizzare il rischio».

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