Il libico Al Buti più vicino all’Aja: «Affari con Almasri e crimini disumani»

Il fascicolo smaschera il “sistema Libia”. L’ufficiale fermato a Berlino è il braccio destro del generale rimpatriato dall’Italia a Tripoli a gennaio, su cui si è aperto lo scontro con la Corte penale
July 31, 2025
Il libico Al Buti più vicino all’Aja: «Affari con Almasri e crimini disumani»
. | Il documento della Corte penale internazionale
Una quarantina di pagine e centinaia di allegati. Il mandato di cattura internazionale emesso nei confronti dell’ufficiale libico El Hishri ed eseguito in Germania il 16 luglio è vicino al punto di svolta. Berlino potrebbe consegnare nel giro di pochi giorni alla corte dell’Aja il braccio destro del generale Almasri, “graziato” dal rimpatrio politico deciso dalle autorità italiane lo scorso gennaio.
E nelle ore in cui Roma viene nuovamente rimproverata dal Tribunale internazionale, che contesta una serie passaggi controversi e alibi tecnici senza riscontro procedurale, a Berlino stringono i tempi per l’estradizione. Il fascicolo che contiene i capi di imputazione suona come un atto d’accusa rivolto non solo a una persona, ma contro un sistema che ancora oggi beneficia di rilevanti coperture internazionali. Ragioni sufficienti perché in molti non vogliano che si celebri il primo processo internazionale sui crimini in Libia, temuto come un vaso di Pandora da cui emergerebbero tracce compromettenti che da Tripoli porterebbero fino a Bruxelles, passando da Malta e Roma.
“Al Buti” è considerato dagli investigatori della procura internazionale e da quelli delle Nazioni Unite come il braccio operativo del traffico internazionale di armi gestito dal generale Almasri e dai vertici della “Rada”, la forza di intervento rapido libica, una milizia riconosciuta dalle autorità centrali e che a sua volta ha emanato la cosiddetta “polizia giudiziaria”, guidata personalmente da Almasri, a cui le autorità di Londra hanno recentemente bloccato alcuni conti su cui giacevano diversi milioni di euro la cui provenienza è in fase di accertamento.
Il contesto è quello che le cronache giornalistiche e le denunce delle vittime conoscevano da anni. Ma ora è nero su bianco in un fascicolo giudiziario. Il gruppo armato non solo «disponeva di strutture o meccanismi» da permettergli di affrontare una condizione di guerra permanente che terrorizza la popolazione civile libica. Padroni della vita e della morte grazie a «risorse significative» che hanno consentito al clan di spadroneggiare, al punto da esercitare pressione su potenze del G7 come l’Italia.
I capi d’imputazione non lasciano molto margine alla difesa e a quegli emissari libici che anche in queste ore stanno tentando il tutto per tutto per impedire l’estradizione dell’indagato. La corte considera «che vi siano motivi ragionevoli per ritenere che, almeno tra febbraio 2015 e l’inizio del 2020, la condotta diretta contro le persone detenute nella prigione di Mitiga, che erano, almeno in parte, percepite come opposte» al governo centrale e alla stessa milizia “Rada”, che reagivano «con un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile». Da qui in avanti comincia il campionario degli orrori: «Detenzione come crimine contro l’umanità», «oltraggio alla dignità personale come crimine di guerra», «trattamento crudele come crimine di guerra», «tortura come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità», «violenza sessuale come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità», «stupro come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità», con il solito contorni del crimine di «omicidio e tentato omicidio come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità». Finire tra le mani degli aguzzini di Mitiga voleva dire non aver diritto a un processo. La parola di gente come Al Buti e dei suoi superiori, era sentenza inappellabile. Le «condanne senza previo giudizio pronunciato da un tribunale regolarmente costituito» erano la regola, perciò giudicate dall’Aja come «crimine di guerra». Molti sono morti. E non perché non avessero retto ai supplizi. Il decesso era programmato, ma al termine dei servizi da rendere, tra cui «schiavitù come crimine contro l’umanità», «schiavitù sessuale come crimine di guerra e crimine contro l’umanità».
Il sistema del lager libico di Mitiga, replicato in altre strutture di detenzione prevedeva un’organizzazione autarchica. I prigionieri erano «costretti a svolgere lavori pesanti nella prigione, quali pulizie, lavori edili, tinteggiatura e trasporto di armi e munizioni. Inoltre, questi detenuti erano costretti a perquisire i corpi delle persone appena arrestate e a preparare gli altri detenuti alla tortura, trasportandoli dalle loro celle al luogo di tortura, bendandoli o ammanettandoli». Per il diletto dei guardiani «altri detenuti sono stati costretti a combattere e alcuni sono stati costretti a donare il proprio sangue».
Per mandare avanti il sistema criminale, servivano i migranti catturati in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica o rastrellati per le strade. A beneficio dei combattenti, in condizione di schiavitù sessuale, con una predilezione per le ragazze più giovani e non di rado anche di bambini di ambedue i sessi. «L’autore del reato - accusa l’Aja - ha esercitato uno o tutti i poteri connessi al diritto di proprietà su una o più persone, ad esempio acquistando, vendendo, prestando o barattando le persone, oppure imponendo loro una privazione della libertà simile; l’autore del reato ha costretto tali persone a compiere uno o più atti di natura sessuale».

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