Caso Almasri: i gesti di Meloni che sono mancati e la macchia che rimane
Delle due l'una: la premier non ha condiviso le scelte dei suoi ministri di lasciar andare il generale libico, oppure ne era consapevole. Se così fosse, perché ha aspettato 6 mesi per dirlo?

Sul caso Almasri siamo al dunque. Delle due l’una, e non si sa quale sia peggio: o - convenendo col distinguo operato dai tre giudici del Tribunale dei ministri, con una sottigliezza forse sin troppo giuridica - Giorgia Meloni non ha “condiviso” le decisioni su una vicenda così delicata, che pur toccava i rapporti con la Corte penale internazionale e con un Paese sponda-chiave nel Mediterraneo come la Libia, e c’è da rabbrividirne al pensiero.
Oppure, come ha rivendicato con piglio contestando il diverso trattamento a lei riservato, la premier era consapevole dell’attività dell’esecutivo, che è sempre collegiale; e però, in questo caso, c’è da chiedersi perché abbia aspettato ben sei mesi per una assunzione di responsabilità così netta quando, anziché denunciare ora confusi «disegni politici», sarebbe potuta invece andare sin dal primo giorno a sbandierarla nella sede naturale del Parlamento, al limite anche opponendo il segreto di Stato se si riteneva che fosse in ballo l’«interesse nazionale».
Il Paese si sarebbe così risparmiato settimane di uno spettacolo penoso, fatto di giustificazioni affastellate e di “non detti”, con l’immagine di un ministro della Giustizia che fa di tutto per ostacolare, anzichè favorire da garante, l’attività della Corte internazionale e lo fa violando, almeno per il Tribunale dei ministri, ben sei articoli dello “Statuto di Roma”, così detto perché - per uno di quei paradossi della storia - è nella nostra capitale che nel 1998 fu firmato l’atto istitutivo della Cpi.
Salvo poi scoprire oggi che fra i timori di ritorsioni vagliati nelle riunioni a Palazzo Chigi in quelle ore c’erano, fra gli altri, pure quelli per «perquisizioni negli uffici Eni» in Libia...
Al di là di eventuali responsabilità penali, che spetta ai giudici valutare, rimane la macchia, lo spettacolo poco edificante offerto dall’esecutivo in questo caso, come rimarcato sin da quei freddi giorni di gennaio col torturatore libico riportato nel luogo dove ha commesso i crimini contestati. Per riscattarlo rimarrebbe una sola via. Quella che Giorgia Meloni rivendicava in una sua “versione 2014”: «FdI è contraria a ogni forma di immunità per i membri di una Camera eletta con le liste bloccate».
Ci rendiamo conto che pensare a una rinuncia all’immunità equivarrebbe però a vivere nel regno di utopia. Un’altra occasione persa per lasciare un segno di reale diversità rispetto ad altri modi di fare politica.
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