Alan, la foto che ci fa ancora male. Per questo non possiamo dimenticarla

Dieci anni dopo, perché ripubblicare quell'immagine tragica? Le perplessità di un lettore, le ragioni di una dolorosa memoria
September 2, 2025
Alan, la foto che ci fa ancora male. Per questo non possiamo dimenticarla
ANSA | Il murale dell'artista AleXsandro Palombo, realizzato sui muri della Caritas di Milano
Buongiorno,
mi chiamo Francesco Marotto e sono il babbo di 5 figli. Per il modo in cui normalmente trattate gli argomenti, trovo nelle vostre pagine un po' di conforto, equilibrio. Prediligo gli articoli che trattano attualità senza disdegnare articoli che sfiorano un po' di spiritualità, e per questo vi ringrazio.
Fuggo dalle notizie sensazionalistiche e dalle immagini forti, il vostro sito in questo mi aiuta, ma non posso che esprimere il forte disagio per la foto del bimbo morto sulla spiaggia che ho trovato anche da voi, era necessario farlo? Non sto e non voglio girare la faccia dalle cose che ci accadono intorno, ma ripeto, era necessaria quella foto? Non leggerò l'articolo.
Ancora un grazie per il lavoro che svolgete, ma...
Cordialmente, Francesco
«Era necessario» pubblicare la fotografia del cadavere di Alan Kurdi? Ce lo chiede il lettore Francesco nella lettera che vedete sopra. Ce lo siamo domandati anche noi, quando, 10 anni fa - era il 2 settembre 2015 - sulle agenzie di tutto il mondo rimbalzò l’immagine catturata sulla spiaggia turca di Bodrum pochi istanti prima che le mani pietose di un operatore sollevassero quel corpicino e lo portassero al sicuro con tenerezza di padre. Ce lo siamo domandati a lungo, e dieci anni fa non ci influenzò il fatto che tutti, ma proprio tutti, i mezzi di informazione avessero fatto del piccoloAlan, appena 3 anni, un emblema della tragedia dei migranti. Ragionammo con la sensibilità di Avvenire, discutemmo se la pubblicazione violasse la regola deontologica - per noi irrinunciabile - che vieta di usare l’immagine di minori coinvolti in fatti di cronaca.
Ebbene, dieci anni fa decidemmo in coscienza che sì, era necessario. Perché quel bambino con la maglietta rossa e i calzoncini blu, ai piedi ancora i sandali, era così simile, così uguale ai nostri bambini, quelli che fino a pochi giorni prima facevano il bagno in mare e saltavano sulle onde dell’estate. Anche Alan, come i nostri figli, meritava di giocare sulla sabbia, non di morirci. Anche Alan, proprio come i nostri figli e - su questo non è permesso alcun equivoco - come tutti i bambini del mondo, di qualunque colore sia la loro pelle e da qualunque luogo provengano, aveva diritto a diventare grande.
Allora decidemmo di pubblicare quella foto perché mostrava con una evidenza che lascia ancora oggi senza fiato cosa significa per troppi bambini emigrare, scappare dalle guerre o dalla povertà in mancanza di canali legali. Quella foto, scattata da Nilüfer Demir, ha scosso le coscienze, ha provocato una ondata di commozione, ha aumentato la pressione sulle istituzioni nazionali ed europee perché prendessero in seria e urgente considerazione politiche di accoglienza e soccorso più umane, più rispettose della vita di chi parte.
Questo era l’obiettivo di tutti i media, compreso Avvenire. Alan è stato una scossa. Ma oggi, dieci anni dopo, «era necessario» ripubblicare la stessa foto, chiede il lettore? Oggi è diverso. Oggi quell’immagine non è più solo il simbolo delle tragedie del Mediterraneo, che continuano giorno dopo giorno ad accadere, ma della cattiva coscienza di chi ha il dovere di gestire il fenomeno epocale delle migrazioni e lo ha fatto trasformando l’Europa in una fortezza, a costo di migliaia di vite umane.
Dieci anni dopo, la foto di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia ci ricorda il fallimento della nostra civiltà: quanti altri Alan senza nome sono stati sacrificati perché noi possiamo mantenere le nostre sicurezze, il nostro benessere, i nostri privilegi? Dunque sì, ripubblicare quella foto, frutto ancora una volta di una lunga riflessione in redazione, era necessario. Da una parte, come detto, per rimarcare che quel “mai più” si è rivelato una utopia.
Dall’altra però per dire che la compassione provata allora non deve scomparire, le nostre coscienze non devono assopirsi. Ogni volta che un bambino muore mentre insegue altrove la felicità o semplicemente la sopravvivenza, dobbiamo farlo risuonare ancora, quel “mai più”. “Mai più Alan”, anche quando i morti sono migliaia, senza nome, senza storia, anche quando non ci sono foto a documentare che vestiti indossavano i bambini annegati nel Mediterraneo o piegati dal freddo lungo la rotta balcanica. La compassione, è vero, non cambia il mondo, ma ci rende più umani.

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