venerdì 28 ottobre 2016
Shosho in fuga dall'Iraq è arrivata in Italia. "I letti di Francesco" è il progetto che offre posti letto per bambini disabili gravi che fuggono dalle guerre da sostenere esclusivamente con la carità
Dall'Iraq ad Assisi: la piccola Shosho, disabile, in cura al Serafico
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«Nella mail ci sono i certificati medici della bambina. Li apro e vedo le foto di Shosho. I suoi profondi occhi neri mi incantano. Shosho mi entra nel cuore». Dal cuore della presidente, ad una stanza del Serafico. Shosho, la piccola irachena originaria di Kirkuk e da tempo rifugiata ad Amman, è stata "adottata" dall’istituto di Assisi, specializzato nella riabilitazione dei disabili gravi.


La presidente Francesca Di Maolo ci racconta la sua storia in una lettera toccante. Racconta l’odissea della famiglia Kmosh, cristiani iracheni cacciati da Kirkuk a causa della loro fede, riparati in Giordania e disposti a partire per ovunque, pur di restare uniti e iniziare una nuova vita.
Con un pensiero fisso: la sorte della piccola Shosho, affetta dalla nascita da una paralisi cerebrale.

Una vicenda a lieto fine, grazie all’impegno di don Mario Cornioli, sacerdote del patriarcato latino di Gerusalemme, e dei diplomatici, della Caritas e dell’Unhcr, ma anche una vicenda intrisa di terrore, per la sorte degli altri membri della famiglia Kmosh, rimasti in balia del Daesh, in Iraq.

Tutto si risolve con l’arrivo di Shosho e dei suoi a Fiumicino, il 26 ottobre: «D’un tratto scorgo don Mario. Accanto a lui Shosho in una tutina rosa con un sorriso grande che ci spalanca il cuore», si conclude il racconto.

La lettera della presidente Di Maolo è il suggello della nuova sfida del Serafico, lanciata con il progetto "I letti di Francesco": posti letto per bambini disabili gravi che fuggono da guerre o situazioni di assoluto abbandono, da sostenere esclusivamente con la carità. Una iniziativa intitolata al Santo di Assisi ma anche un omaggio a Papa Francesco, la cui visita al Serafico del 2013 ha spinto il centro a questo passo, allo scopo, spiegano all’istituto di celebrare l’anno della Misericordia attraverso l’impegno concreto «di non mettere confini all'accoglienza».

Il testo della lettera di Francesca di Maolo

«Dopo la visita di papa Francesco al Serafico nel 2013 e nell’anno della canonizzazione del fondatore del Serafico, san Ludovico da Casoria, abbiamo maturato il desiderio di aprire le porte della nostra opera ai bambini disabili più vulnerabili. Abbiamo chiesto l’autorizzazione alla Regione Umbria di due nuovi posti letto da dedicare ai bambini dimenticati, che vivono in Paesi poveri o in guerra, dove risulta impossibile seguire dei percorsi di cura e di riabilitazione adeguati.

Tra di noi, nel Consiglio di Amministrazione e nei nostri uffici amministrativi, abbiamo iniziato a chiamarli i Letti di Francesco. Sentivamo che quei letti erano un modo per rinnovare il carisma del Serafico, per tornare alle origini, a San Francesco, di cui portiamo il nome, che iniziò la sua conversione abbracciando il lebbroso, l’ultimo, il diverso, colui che vogliamo dimenticare. Ma quei letti erano anche quelli che papa Francesco ci aveva ispirato con il suo incessante invito alla Chiesa e a tutti i fedeli “ad uscire”, a non rimane chiusi nelle strutture.

Quando il nostro progetto è iniziato, prima nel cuore poi nella sua dimensione organizzativa, ancora non conoscevo i bambini che quei letti avrebbero ospitato. Alla fine del mese di febbraio don Mario Cornioli, un sacerdote del patriarcato latino di Gerusalemme che collabora con la Nunziatura di Amman per il servizio ai profughi iracheni, mi scriveva una mail per raccontarmi la storia di una famiglia di Kirkuk rifugiata ad Amman.

I coniugi Kmosh
hanno 4 figli: un maschio e tre femmine una delle quali gravemente disabile. La chiamano Shosho e fa fatica a vivere ad Amman. E’ difficile curarla e impossibile offrirle un ambiente adeguato ed un percorso di riabilitazione. Nella mail di don Mario c’erano in allegato i certificati medici della bambina.

Li apro, anche se non sono un medico, e vedo le foto di Shosho. I suoi profondi occhi neri mi incantano. Shosho mi entra nel cuore. In un primo momento, per procedere il più rapidamente possibile, il Serafico si rende disponibile per accogliere Shosho, magari con la madre, ma la famiglia non vuole separarsi, vuole rimanere unita. La prima cosa da capire è come organizzare la loro accoglienza. Serve una casa per una famiglia numerosa e senza barriere per la bambina. La strada sembra in salita. I nostri centri di accoglienza Caritas sono pieni e, comunque, non adatti alla famiglia.

Suor Elisa Carta, la direttrice della Caritas di Assisi, si mette in cerca dell'alloggio. Ma trovarlo al primo piano, senza scale e grande da ospitare sei persone sembra impossibile. Un giorno suor Elisa ci chiama. Il Sacro Convento aveva messo a disposizione una casa, proprio vicina al Serafico, dove la bambina sarebbe stata ricoverata in regime semiresidenziale. Giocondo, direttore generale del Serafico, la va a vedere: la casa è perfetta.

Inviamo le foto a Don Mario, e la famiglia inizia a immaginare una nuova vita in quella casa, proprio sotto la Basilica di San Francesco. Ma la strada è ancora in salita. UNHCR, agenzia ONU per i rifugiati, non ha la possibilità di trasferire la famiglia in Italia. Iniziamo così noi a prendere contatti con il Ministero degli interni, Dipartimento delle libertà civili e immigrazioni. Sul terreno, Don Mario avvia i contatti con i funzionari di UNHCR e con l’ambasciata italiana ad Amman, ma in un primo momento sembra impossibile il trasferimento.

Questo intenso lavoro di tessitura ci porta a conoscere meglio la famiglia e il ruolo molto importante degli operatori di UNHCR, professionisti straordinari che ogni giorno, nel silenzio più assoluto, aiutano le persone ferite dalla guerra a ritrovare dignità e speranza. Un giorno Nameer, il papà, mi invia via mail la sua storia.

Lui è un veterinario e sua moglie Elham è un’insegnante presso una scuola serale di elettrotecnica. Fino al 2014 vivevano felici nella città di Kirkuk. Poi è arrivata anche nelle loro zone l’avanzata dell’ISIS. La sera del 2 giugno del 2014 Nameer stava tornando a casa dal lavoro quando all’improvviso è stato fermato da uomini armati con il volto coperto. Dopo essere stato tirato fuori dall’auto con la forza, si è ritrovato con un’arma puntata sulla fronte. “Conosciamo bene la tua famiglia di cristiani infedeli. Non avete il diritto di vivere in Iraq. Ve ne dovete andare, altrimenti vi uccideremo”. Mi scrive, in lingua inglese: “Ancora mi domando come sia riuscito a salvarmi da quella situazione”, racconta. “Quando sono tornato a casa ho avvertito mia moglie di non uscire più per nessun motivo e di non aprire la porta a nessuno”.

Mentre partiva la corsa al reperimento di tutti i documenti necessari per scappare, Nameer, in cuor suo, conservava la speranza di poter crescere i suoi 4 figli nella città in cui lui stesso era nato e dove aveva conosciuto sua moglie. La sua casa non poteva essere una prigione per sempre, con pazienza contava semplicemente su tempi migliori, ma all’orizzonte si manifestavano solo gli scenari più cupi. Una sera di fine luglio del 2014 il telefono di casa Nameer squillava insistentemente. Dall’altra parte della cornetta c’erano gli uomini che non volevano vederlo girare liberamente per le strade di Kirkuk. “Stai disobbedendo alla legge dell’ISIS restando in Iraq. Così dimostri di non prenderti cura della tua famiglia”. Con questa minaccia telefonica finiscono le speranze di Nameer di poter trascorrere la sua vita in Iraq.

L’8 settembre 2014 arrivano in Giordania, dove vengono accolti dalla Chiesa locale e la Nunziatura di Amman.In Giordania i profughi vengono accolti, ma non possono lavorare, altrimenti rischiano l’espulsione. Non ci sono prospettive per loro. Grazie alla Chiesa locale, la famiglia trova ricovero in una casa. Ma è piccola, con poche finestre. La famiglia spera che quella situazione sia temporanea. Sogna di avere presto un visto per ricominciare in un nuovo Paese. Ma il visto non arriva, passa un anno, ne passano due. La situazione è difficile, ottenere medicine per la bambina è difficile. Si sopravvive e si instaurano legami forti: con don Mario che non li abbandona e con altri cristiani iracheni.

Sotto la protezione della Chiesa, i profughi imparano nuovi mestieri che potrebbero essere utili nel nuovo Paese che li ospiterà. Così Nameer si occupa di tutto: della falegnameria, dei macchinari dell’atelier delle ragazze irachene, Rafedin. I giorni scorrono e si fa sempre più forte il sogno dell’Italia. Mi chiedono di inviare loro le foto del Serafico e quelle immagini sono il sogno cui si aggrappano, pensando a Shosho che soffre la situazione più di tutti gli altri. Per cercare di accelerare ho scritto una lettera all’Ambasciatore Italiano ad Amman in cui mi sono assunta l’impegno, per il Serafico, a ricovero della bambina e ho rappresentato anche la disponibilità della Caritas di Assisi a fare la sua parte per l’accoglienza di tutta la famiglia. Ma non basta. Non ci sono ancora accordi specifici tra la Giordania e l’Italia per situazioni di questo tipo. E così durante l’estate il sogno di venire in Italia svanisce più volte. D’altro canto ricevono una prima chiamata per il Canada, poi per il Regno Unito. Ogni volta si immaginano la loro nuova vita. Ma ogni volta il visto non si concretizza.

Poi a settembre veniamo a sapere che il Governo Italiano avrebbe previsto dei trasferimenti anche da Amman. E così torniamo a sperare. Ma tutto precipita di nuovo in pochi giorni. Mi scrive Don Mario della nuova tragedia familiare. Il fratello di Shosho, Yousif, rischia di perdere l’occhio se non viene operato: ha subito il distaccamento della retina. E’ il 4 ottobre, sono al Sacro Convento per la festa di San Francesco. Mi arriva una telefonata dal ministero dell’Interno. Mi chiedono se eravamo ancora disponibili ad accogliere la famiglia. Suor Elisa è seduta proprio accanto a me e Padre Mauro, il Padre Custode, è poco lontano da noi. Basta uno sguardo d’intesa per decidere: la nostra risposta è sì. Mi comunicano che il trasferimento sarebbe avvenuto in massimo tre settimane per l’urgenza sanitaria. Tutto il resto scorre veloce. Si arreda la loro casa, immaginiamo le loro necessità. Ormai sappiamo tutto di loro. Cosa mangiano, come preparano il cibo per la bambina. Per la famiglia è arrivato il momento di rinascere.

Ma ancora la sorte incombe su di loro, sugli affetti rimasti a Kirkuk. E’ il 21 ottobre, tutto è pronto per la partenza prevista per il prossimo 26 ottobre. Kirkuk viene attaccata dall’Isis. La sorella e il fratello di Nameer si nascondono nel sotterraneo della casa di Nameer. Inviano messaggi di paura e di terrore. Don Mario ci tiene informati. Noi preghiamo per loro. Ci troviamo immersi in questa guerra insensata. Ci sentiamo impotenti, increduli. 4 terroristi Isis sono appostati dietro la porta di casa. La polizia li trova e li uccide. Al mattino mi arriva la bella notizia. Il resto della famiglia di Nameer è salvo. Mi inviano le foto della loro casa dopo l’attacco. I vetri sono in frantumi per gli spari. Le pallottole sul muro. Mi sconvolge vedere la loro casa. Una casa normale, con le tende ai vetri, i quadri alle pareti. Una casa che sembra una delle tante della nostra città, ma con i segni evidenti della guerra.Nell'era di internet puoi vivere tutto in diretta. È sconvolgente. Ti senti impotente. In questi mesi, profondamente toccata dai loro racconti, mi sono attaccata a Shosho concentrandomi per trovare la via per metterla in salvo. È un modo per reagire a questa guerra insensata. Non è possibile rimanere indifferenti, chiusi nella nostra quotidianità come se non stesse accadendo niente, come se l'umanità non fosse minacciata. Questa guerra sta falciando la vita dei bambini come non era mai accaduto prima, loro sono il nostro presente, il nostro futuro, la nostra speranza.

Con don Mario abbiamo iniziato il conto alla rovescia. Il 25 mi scrive un messaggio e mi dà il buon giorno dicendo: “-22 ore…”; quasi non ci crediamo. La vigilia del loro arrivo, è stata una giornata davvero particolare. Per loro, da un lato, è stata una giornata molto triste. Hanno salutato tutti gli amici di Amman e gli altri iracheni cristiani che ormai facevano parte con loro di una grande famiglia. So che hanno pianto. Stanno per iniziare tutto di nuovo. Un nuovo abbandono, anche se con la gioia e l’emozione di chi sa che finalmente ha la possibilità di tornare ad essere libero. Mi chiedo perché, abbiano dovuto lasciare tutto. Provo solo a immaginare il loro stato d'animo, le loro paure. Spero che la nostra comunità possa essere accogliente e provare compassione. Arriva il tanto atteso giorno. Parto alle 4.00 della mattina con Giocondo Leonardi, Direttore Generale del Serafico e Sandro Elisei, il Direttore sanitario. In aeroporto ci aspettano i funzionari del Dipartimento delle Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell'Interno. Ci dirigiamo verso gli arrivi. Inizia l'attesa. Ad un tratto scorgo don Mario. Accanto a lui Shosho in una tutina rosa con un sorriso grande che ci spalanca il cuore. La commozione prende il sopravvento... ».

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