mercoledì 27 gennaio 2021
Dalla mancata rendicontazione ai subappalti delle Ong. Oltre 6 milioni solo nel 2017. Asgi: «Accertare se il denaro pubblico sia finito alle milizie, favorendo un sistema di morte e sfruttamento»
Uno dei campi di detenzione in Libia

Uno dei campi di detenzione in Libia - (Archivio)

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Quanti soldi l'Italia ha davvero messo sul piatto libico? Quale strada hanno preso gli “aiuti” stanziati dal nostro Paese? Una risposta potrebbe arrivare dalla procura della Corte dei Conti, che ha ricevuto un esposto nel quale viene tracciata la mappa di diversi stanziamenti le cui tracce si perdono tra campi di prigionia e milizie.

Per mesi ci ha lavorato un team legale di Asgi, l'associazione di giuristi specializzati su migrazioni e diritti umani. A partire dal 2017 attraverso l'Agenzia per la cooperazione sono stati stanziati «6 milioni di euro per interventi all'interno di centri di detenzione per migranti in Libia», ricostruisce l'atto firmato dal presidente Lorenzo Trucco. Che non si sarebbe trattato di cooperazione ordinaria secondo Asgi si comprende quando nei bandi presi in esame si ammette «che il governo di Tripoli sembra avere un controllo meramente nominale su molti dei centri, di fatto gestiti da milizie locali». E non si esita neanche a riconoscere la «drammaticità delle condizioni di vita».

Più volte i legali hanno chiesto di analizzare la rendicontazione. Ma il ministero degli Esteri «ha sempre negato l'accesso a documenti chiave quali il testo dei progetti approvati e i rapporti di monitoraggio» inidispensabili per «verificare la spesa del denaro pubblico per le finalità a cui era preordinato». Alla magistratura contabile è chiesto di verificare se l'uso di questi fondi non abbia finito per fornire anche indirettamente «un sostegno ai centri di detenzione e alle milizie armate che li gestiscono». Alcune delle Ong italiane assegnatarie dei bandi, vista la sostanziale impossibilità a lavorare adeguatamente in Libia, hanno preannunciato di non voler più partecipare al rinnovo dei progetti. Nessuna di esse, infatti, ha potuto usare personale internazionale ma solo subappaltatori libici, «senza che ciò – denuncia Asgi – sia controbilanciato dalla previsione di chiari ed adeguati meccanismi di monitoraggio».

Non è l'unica anomalia. I nomi dei subappaltatori non sono mai stati resi noti dalla Farnesina, ufficialmente per tutelarne la sicurezza. Una precauzione che pare smentita proprio dalle Ong, che sui propri siti Internet citano tra gli altri “Staco” (Sheikh Taher Azzawi Charity Organization) e “Pss Team” (Libyan Psychosocial Support Team).

Secondo una comunicazione interna delle Nazioni Unite citata nell'esposto «esiste un “alto rischio” che gli aiuti umanitari destinati ai detenuti vengano incamerati da gruppi armati». È il caso del campo di prigionia di Zawiyah, «gestito dal clan del noto trafficante noto come “Bija” (recentemente arrestato, ndr) e teatro di un intervento da 1 milione di euro». I fondi sono stati stanziati a partire dal 2017, ma il tribunale di Messina nel maggio 2020 ha condannato a 20 anni di carcere, per crimini contro i migranti, proprio tre guardie di quella prigione. Diverse fonti citate nell'esposto hanno confermato ad Asgi che gli “aiuti” finirebbero «metà ai detenuti, metà alle guardie» e molti beni «vengono poi rivenduti sul mercato nero». Alberto Pasquero, uno dei legali che per Asgi ha lavorato all'esposto, si aspetta che la giustizia contabile «aiuti a capire se i progetti finanziati dal governo italiano hanno contribuito a sostenere un sistema che produce morte e sfruttamento». Ma a quel punto l'inchiesta passerebbe alla Procura della repubblica. E coinvolgerebbe anche nomi eccellenti della politica.

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