Vita

Fine vita: perché dire sì a questo ddl. Una legge ci vuole. Lo si deve ai più fragili

Alberto Gambino mercoledì 23 marzo 2011
Nel dibattito pubblico sul fine vita appare urgente sgomberare il campo da una doppia lettura, diametralmente opposta e perciò foriera di confusione. Ancora ieri sulla stampa si registravano due interpretazioni clamorosamente antitetiche delle norme in approvazione alla Camera dei Deputati. L’una, avallata dai media più inclini alla valorizzazione dell’assolutezza dell’autodeterminazione, la quale vedrebbe nel testo sulle Dat una legge che assolutizza il principio di naturalità e di indisponibilità dei concetti di vita e di morte. L’altra, promossa in ambiti scrupolosi e attenti alla centralità e alla tutela della vita umana, che, invece, interpreta il testo come la prova generale – che poi si realizzerà pienamente con successive letture giudiziali – di una breccia eutanasica scolpita sul nostro sistema ordinamentale. Ancora una volta preme rilevare che tale doppia e divergente lettura non è né logica né reale. Delle due l’una: o la legge apre all’eutanasia, oppure chiude; tertium non datur. L’unanime coro di no alla legge da parte dei paladini della libera autodeterminazione in realtà si oppone a un’altra prospettiva che reclama a gran voce l’intervento legislativo, in quanto percepisce chiaramente che già oggi esistono strumenti giurisdizionali pronti ad avallare derive eutanasiche. Già, infatti, accade ed è sufficiente scorrere le riviste giuridiche italiane o essere frequentatori delle aule giudiziarie per accorgersi di alcune decisioni di giudici tutelari, le quali davvero segnano la quotidianità delle persone, le loro abitudini, i loro intendimenti circa l’applicazione della legge. Queste sentenze legittimano già oggi tutori e amministratori di sostegno a dare rilevanza giuridica alle dichiarazioni anche eutanasiche di assistiti e pazienti e lo possono fare sulla scorta della giurisprudenza dei casi Welby ed Englaro. Neanche appare centrato il problema di chi intravede esiti pericolosi nella promozione a rango di legge della prassi del consenso informato. Il consenso informato – si riterrebbe – potrebbe portare a instaurare protocolli eutanasici, sotto le mentite spoglie del rifiuto consapevole, perché in questo caso cosciente, delle cure. È evidente, però, che l’eventuale rifiuto di una terapia non potrà slittare legalmente in casi di abbandono terapeutico, in quanto in questi casi – come già oggi avviene – la rottura dell’alleanza terapeutica con il medico avrà quale conseguenza le dimissioni dalla struttura sanitaria nella quale si è ricoverati. L’attuale testo di legge vieta, infatti, al suo articolo 1 «ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica nonché di assistenza alle persone esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza». Anche la percezione che l’espressione «dichiarazione» utilizzata appunto per contrassegnare le Dat possa comportare una maggiore vincolatività delle stesse è disattesa proprio dal carattere non vincolante che ancora oggi alla Camera il legislatore ha confermato.Ma anche ove residuino dubbi interpretativi, la via maestra non può che essere quella di collaborare al miglioramento di un testo e non certo quello di sanzionarne l’inutilità e dunque l’affossamento. Si finisce altrimenti – in un palese caso di eterogenesi dei fini – per fare lo stesso gioco di chi non vuole la legge perché la ritiene inaccettabile proprio nei confronti di quelle vite umane in condizioni di fragilità che, con immaginifico linguaggio, altro non sono che «puro guscio biologico affidato alle macchine, ormai privo di qualunque funzione riconducibile al pensiero». Si tratta a ben vedere, invece, di alcune migliaia di persone in condizione vegetativa, molte delle quali si risvegliano, assistite e sostentate da familiari, infermieri e assistenti, che proprio per la loro non autosufficienza richiedono l’ovvio ausilio di sondini naso-gastrici, necessari per veicolare quel sostentamento che in caso di piena capacità certo non si negherebbe a nessuno. E che forse un certo cinismo legato a un’analisi costi-benefici della degenza di tali persone ammanta sotto il profilo ideologico della sovranità dell’autodeterminazione.