Opinioni

Un amico e grande firma si congeda e da cristiano prepara il «grande salto»

Marco Tarquinio mercoledì 23 novembre 2022

Cesare Cavalleri fa arrivare a me, ma non solo a me, un addio che è un vero colpo in forma di lettera. Lo saluto qui con commossa gratitudine e un arrivederci

Carissimo direttore,
i medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita. Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto (quella remota è iniziata, con alti e bassi, nell’adolescenza). Anche se le mie principali risorse sono state applicate alle Edizioni Ares e a “Studi cattolici” (ne sono direttore da 57 anni), la collaborazione ad “Avvenire” è stata per me importante professionalmente e umanamente. È cominciata col primo numero del giornale e per 15 anni ne sono stato il critico televisivo; poi vennero le rubriche “Persone & Parole”, e poi ancora “Leggere, rileggere” fino a mercoledì l’altro. Ringrazio te e i tuoi predecessori per la libertà che mi avete concesso di esprimermi a mio gusto e i redattori che “passavano” i miei pezzi, per anni Roberto Righetto, ultimamente Edoardo Castagna, che hanno sopportato qualche mio ghiribizzo. Dal Cielo (se, come spero, Cielo sarà) la grande famiglia di “Avvenire” non sarà da me dimenticata.

Cesare Cavalleri


Grande direttore e carissimo Cesare, che colpo al cuore leggerti, stavolta. E che commozione. Faccio fatica a risponderti pubblicamente, ma lo desidero. Così come poco fa ho sentito l’urgenza di parlarti al telefono. Di solito, misurarsi con un tuo scritto è un piacere e, sempre, è uno stimolo a riflettere, ad acconsentire, a obiettare e a “Leggere e rileggere” (come nel titolo della rubrica che hai curato per tutti gli anni della mia direzione di questo giornale). Ma che colpo, ora, è questo addio e la maniera con cui hai deciso di consegnarlo a me e a tutti noi, la «grande famiglia » di “Avvenire”. Con uno stile e una sostanza essenziali, e molto tuoi. Che fan sentire il «grande salto» della morte, come lo chiami, un passaggio naturale e inevitabile (seppur inimmaginabi-le, per circostanze) di un discorrere disteso e sodo. E, per altri versi, il rasserenato e indaffarato tirare le fila di un’esistenza consacrata alla Parola che è Cristo e, da giornalista, critico ed editore, alle parole e al confronto dialogante e schietto con le persone. Così può essere e così sia, amico mio. Proprio come te, so sono tante le grazie che riceviamo e che scopriamo nella nostra vita, e qualche volta possiamo persino illuderci di averle meritate. In realtà, sono tutte senza merito, a cominciare dalla Grazia che è la fede. Eppure tra di esse, ci penso spesso invecchiando, e oggi maggiormente, ce n’è una che forse è più immeritata e specialmente preziosa: la grazia di saperci mortali e tuttavia di “non sapere né il giorno né l’ora”. A te questa grazia è stata sostanzialmente, «graziosamente» scrivi con garbata ironia, tolta. Ma ti è stato dato un tempo di congedo. Misteri che la nostra vita e anche la nostra morte stentano a contenere. Anche per questo, ma non solo per questo, mi auguro e ti auguro ostinatamente un errore medico: che sia stato un gigantesco abbaglio e che venga un’abbagliante smentita. Perché a tanti già pesa, e duole, il tuo silenzio, in pagina, al limitare del cinquantaquattresimo anno di libera e responsabile collaborazione col nostro giornale. Ma intanto ti penso e ti vedo – tra scout c’intendiamo – in testa alla fila, che dai il ritmo nella salita e io, buon ultimo, che tengo dietro come so e posso. E questo cammino, lo sai, è anche preghiera. Mi fermo qui, perché mi tremano la voce e la mano che scrive. Grazie, Cesare, ancora una volta, per le parole e le persone che ci hai aiutato a incontrare. Grazie per la fedeltà che prometti e confermi e testimoni. Grazie, perché non hai dimenticato e non dimentichi e ci insegni a non dimenticare di esser partecipi di una storia e di un amore più grandi. Grazie, e arrivederci quando vedremo chiaro, tutti, faccia a faccia.