Opinioni

La XXI Giornata mondiale della vita consacrata. Uditori della Parola e dell'umano

Luigi Gaetani* giovedì 2 febbraio 2017

Veglia di preghiera per la vita consacrata nella basilica di San Pietro (Siciliani)

Celebrare la XXI Giornata Mondiale della Vita Consacrata non vuol dire vivere nostalgicamente un evento, ma osare quell’oltre che è inscritto in ogni esperienza umana. In questa prospettiva di futuro e di profezia, come quella significata da Gesù presentato al Tempio, la vita religiosa in Italia non può limitarsi a conservare l’esistente, cosa già ardua in sé, ma convoca alla responsabilità tutti i religiosi, ricordando che in un tempo di contrazione delle forze e della stessa rappresentatività – oltre che di abbandoni che «ci preoccupano», come ha ricordato il Papa nella recente udienza alla plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica –, occorre assumere un ruolo di maggiore sinodalità, solidarietà e visibilità.

La compagnia, come esperienza di sinodalità e solidarietà, porta a dire che la minorità non necessariamente coincide con la contrazione della significanza e che la riduzione delle forze non produce ipso facto la sterilità della fantasia o l’impossibilità a pensare insieme, in una sinergia di carismi, quello che è impossibile realizzare da soli. Infatti, la “co-essenzialità” carismatica non riduce necessariamente i carismi, ma genera una riviviscenza carismatica, soprattutto tra carismi affini per spiritualità o per opere; pertanto, l’uscita missionaria, tanto cara a papa Francesco, non spaventa, anzi ricorda la singolare idoneità dei religiosi alla vita pastorale della Chiesa e alle attese del popolo di Dio, perché è tanta la esperienza di fede e di vita maturata che possono intraprendere gioiosamente questo cammino, vera riforma della nostra vita e dei nostri Istituti, oltre che della Chiesa.

La compagnia, come spazio di visibilità, porta a dire che in un tempo di comunicazione breve, liquido e veloce, occorre essere più attenti: «Se non investiamo seriamente sulla comunicazione, rischiamo l’irrilevanza e la marginalità», ha ricordato il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino. La Chiesa italiana a Firenze ci ha detto che occorre abitare, ovvero, progettare nuove forme di presenza e testimonianza, che umanizzare è la posta in gioco più alta, perché tocca l’essere stesso della persona e che ai cattolici spetta il ruolo di presidio dell’umano. Per poter realizzare questo, come religiosi in Italia, la prima missione che dobbiamo compiere è quella della comunione. Innanzitutto tra noi, «curando in modo particolare la vita fraterna in comunità», secondo l’indicazione di papa Francesco nel già ricordato discorso di qualche giorno fa. E poi comunione non solo sinodale e solidale, ma anche visibile con tutte le componenti ecclesiali, ognuno con i mezzi che ha a disposizione, senza lamenti storici, ma con la capacità di educare oggi alle domande ed offrire risposte concrete al Popolo di Dio e, contestualmente, a quella carovana umana che conosce la fatica della vita.

Il tempo che viviamo è l’era della scommessa sull’umano pertanto, o impariamo ad abitare questo tempo e questi nuovi spazi con attenzione e premura per l’umano, o saremo assorbiti da un modello tecnico, perché va molto più veloce della nostra capacità di elaborare i significati. Il modello da seguire è quello della «Chiesa in uscita», che decide di annullare le distanze rispetto ai suoi interlocutori, perché sa che ciò che fa la differenza è la persona umana, rompendo gli schemi dell’autoreferenzialità, anche all’interno del nostro ecosistema ecclesiastico perché, o cambiamo e accettiamo la sfida o le cose ci sfuggiranno di mano. Dobbiamo aprire almeno una finestra che guarda e che racconta il mondo, dobbiamo raccontare le storie di speranza nel territorio a partire dalla nostra capacità di stare accanto alla gente, sporcandoci le mani ma profumando di cielo, con uno sguardo che va oltre e che ha Altro da dire.

Gesù ha saputo guardare oltre dando forma alla sua vita quando, nei momenti importanti della missione terrena, ha incentivato la relazione profonda con il Padre. I discepoli hanno appreso questa forma di vita del Maestro introducendosi nella sua stessa intimità. I santi fondatori hanno saputo vedere oltre perché sono stati uditori della Parola e dell’umano.

Ai religiosi, dunque, non è richiesto, per essere in linea con il Vangelo e l’ispirazione prima dei fondatori, di bloccare il carisma scadendo in forme di mondanità spirituale o nella tentazione dei numeri, ma è richiesto loro di guardare oltre, di avvicinarsi all’intimità stessa di Gesù Cristo («tenere fisso lo sguardo sul Signore, facendo sempre attenzione a non cedere ai criteri della mondanità», secondo la parola del Papa), come quella di chi vive sul bordo del pozzo (Gv 4), nella ricerca della verità e dell’incontro, dove l’ascolto accade nel silenzio abissale di Dio e dell’uomo divenendo musica silente (san Giovanni della Croce), esperienza di resistenza e resa, tra storia ed escatologia, tra sequela ravvicinata e realizzazione del Regno.

*Sacerdote ocd, presidente della Conferenza italiana dei Superiori maggiori (Cism)