Opinioni

Conta ciò che si fa, di più come. Il lavoro che salva

Luigino Bruni lunedì 15 ottobre 2012
In Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, un numero destinato, con ogni probabilità, a crescere nei prossimi anni, a meno di svolte che per ora restano nel regno dei desideri. Dovremmo fermarci di più a riflettere su questi numeri fatti di carne e sangue, che possono dirci molte cose, e ci potrebbero spingere all’azione per cambiarli e migliorarli.Se pensassimo fino in fondo a questi numeri, senza fermarci alla superficie del fenomeno, ci accorgeremmo presto che il principale costo delle crisi economiche, soprattutto di quelle profonde ed epocali come quella di oggi, è sempre quello umano. Ma il principale ostacolo che si incontra subito è la mancanza di indici di bilancio o di monete capaci di misurarlo, compensarlo, e spesso perfino di vederlo. Non entra nel Pil, e solo l’osservazione della vita vera della gente e del mondo del lavoro potrebbe almeno in parte rivelarci. Le componenti principali di questo costo umano, invisibile ma realissimo, sono due, che aumentano entrambe in tempi di crisi: la disoccupazione in senso stretto e la sofferenza che nasce dal dover fare lavori sbagliati per vivere. Della prima componente, cioè dei costi della disoccupazione, sappiamo abbastanza, ma non sappiamo e non diciamo tutto: si sottolinea poco, ad esempio, il danno di avere un numero crescente di giovani fuori dal mondo del lavoro. E quando i giovani non lavorano sono certamente i giovani stessi a perdere molto, moltissimo, per la mancanza di reddito e per non investire lavorando gli anni migliori e più creativi della vita; ma perde moltissimo anche il mondo dell’impresa, che quando non ha abbastanza giovani tra i suoi lavoratori non riesce a innovare veramente, non ha abbastanza entusiasmo, gratuità, voglia di futuro e speranza.Un Paese come il nostro e come tanti altri in Europa (non nel resto del pianeta) che lasciano troppi giovani fuori dal mondo produttivo, genera allora un grande duplice grave danno: per i giovani (e quindi per tutti) e per le imprese (e quindi per tutti). Ma c’è di più, e per capirlo dobbiamo considerare la seconda componente del costo umano della disoccupazione: la profonda sofferenza di chi, quando il lavoro manca, è costretto ad accettare lavori che non corrispondono alla propria vocazione e ai propri talenti. Perché? E in quale senso? Un giorno rividi una mia compagna di liceo, che lavorava, laureata, come cassiera in un supermercato. Al vedermi arrossì, in evidente disagio che nasceva dal sapere, lei per prima, che quel lavoro che stava facendo non era quello che aveva voluto, sognato, per cui aveva studiato e sudato tanti anni. La prima cosa che avrei voluto dirle e farle in qualche modo arrivare, è il valore etico del lavoro, anche quando è svolto "semplicemente" per procuransi il necessario per vivere, non dipendere dagli altri, e magari far vivere bene le persone alle quali si è legati e di cui si è responsabili.Milioni di persone vanno tutti i giorni a lavorare per questa ragione, e nel lavorare per vivere e far vivere meglio possibile nobilitano il lavoro, se stessi, la società. Tutto questo può essere già molto; ma il lavoro non è mai solo questo, perché quell’essere simbolico che chiamiamo "persona" è sempre in cerca di senso in quello che fa. E se il lavoro mentre mi dà da vivere non mi dà anche senso (e cioè significato e direzione), il lavoro darà pure un bene (salario, identità sociale), ma procurerà molta sofferenza nel lavoratore e nelle relazioni attorno a lui o a lei, dentro e fuori le imprese. C’è, però, una possibilità – avrei voluto aggiungere in quel dialogo silenzioso tra due vecchi compagni di scuola – per redimere e dar senso a questa sofferenza: cercare di fare bene ciò che si fa. Anzi, sono convinto che esista una sorta di regola aurea: «Più il lavoro che svolgiamo è sbagliato, più dobbiamo farlo bene, se non vogliamo morire».Se si lavora nel posto sbagliato, se si fanno cose lontanissime da quelle che si pensa siano la professione che mi farebbe fiorire, l’unico modo per salvarsi è lavorare bene. Perché se lavoro male in un lavoro sbagliato, mi spengo dentro. Perché non rimane più nulla di vero a cui aggrapparmi per continuare a vivere e a crescere. E nel far bene qualsiasi lavoro aiuta pensarlo e viverlo come "servizio", questa parola oggi non più di moda perché non è di moda la vita, ma che è sempre fondativa di ogni vera civiltà.Tutti, però, cittadini, imprese e istituzioni, dobbiamo fare di più perché un numero sempre maggiore di persone (giovani in particolare) lavorino, e possibilmente nel luogo giusto. Erano soprattutto queste le cose che avrei voluto dire a quella mia compagna di scuola, e che bisognerebbe saper dire ai tanti concittadini che oggi, per vivere o sopravvivere, continuano a rendere sacro e degno il loro lavoro, ogni lavoro. E può anche accadere, fatto non raro, che a forza di far bene un lavoro che non piace, si finisca un giorno per amarlo.