Opinioni

Accademia della Vita: la nuova sfida. Fare globale la bioetica

Francesco D'Agostino giovedì 17 gennaio 2019

La lettera (intitolata Humana Communitas) che papa Francesco ha inviato all’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del XXV anniversario della sua istituzione (11 febbraio 1994) è di singolare importanza, almeno sotto due profili.

In primo luogo, perché tramite essa viene confermato il mandato che san Giovanni Paolo II, dietro suggerimento del grande scienziato Jérôme Lejeune, che ne fu il primo presidente, diede all’Accademia: quello di sviluppare iniziative di studio, di formazione e di riflessione per non cedere al misoneismo di coloro che ritengono che i progressi di scienza e tecnica non contribuiscano al bene integrale dell’uomo e non siano conformi al progetto divino di salvezza: un impegno, questo, che richiede la ferma convinzione che ogni forma di sapere (e quello bio-tecnologico in particolare) richiede un impegno irremovibile a favore del servizio alla persona umana e dei suoi diritti fondamentali.

Ma anche sotto un secondo profilo, forse prevalente, la lettera Humana Communitas andrebbe studiata e meditata. Nel testo della lettera manca infatti ogni accenno di generico e irenico ottimismo. Il Papa sottolinea come l’impegno per la difesa e la promozione della vita viva oggi all’interno di un autentico paradosso, che sta sotto gli occhi di tutti: proprio nel momento storico (quello odierno) in cui lo sviluppo economico e tecnologico ci permetterebbe di prenderci efficacemente cura della casa comune e dei diritti umani, proprio oggi si manifestano divisioni, lacerazioni, conflitti, che producono demoralizzazione e disorientamento: viviamo in un’atmosfera che per molti è di un dilagante «avvilimento spirituale» (queste le esatte parole del Papa). Di qui, l’appello a un lucido impegno dei cristiani nel mondo, un impegno consapevole, rapido e soprattutto sollecito «prima che sia troppo tardi».

Diverse sono le indicazioni, tutte molto calibrate, che Francesco dà all’Accademia per la Vita perché possa operare efficacemente in tal senso. Ne raccolgo due: una di carattere storico-culturale, l’altra di carattere evangelico-pastorale. A livello storico-culturale il Papa rivolge ai suoi lettori una domanda davvero ruvida: siamo ancora in grado, noi cristiani, di insistere sull’unità della famiglia umana o ne abbiamo perso di vista la centralità «anteponendo le ambizioni della nostra egemonia spirituale sul governo della città secolare… alla cura della comunità locale, aperta all’ospitalità evangelica per i poveri e i disperati»? La questione è sintetizzata dallo stesso papa Francesco in modo efficace: «Dobbiamo riconoscere che la fraternità rimane la promessa mancata della modernità». È un tema sul quale la Pontificia Accademia per la Vita dovrà impegnarsi strenuamente.

Si noti però che questo forte accenno di Francesco alla crisi della fraternità, che caratterizza il nostro tempo, non possiede soltanto un carattere storico-culturale, ma implica l’indicazione di un impegno evangelico-pastorale. E un impegno a evangelizzare il mondo di oggi, esortandolo a cogliere il senso della vita indicando nella dinamica della generazione l’esperienza fondamentale di riferimento. Il Papa è chiarissimo al riguardo: la vita non va ridotta a concetto solamente biologico o ad un universale astratto dalle relazioni e dalla storia. Vivere significa ricevere il mondo da chi ci ha generato e trasmetterlo, in una logica di amore, valori, orientamenti di senso a chi verrà dopo di noi, in modo da rendere concreta l’espressione «famiglia umana».

Di qui il nuovo rilievo che sta assumendo la «bioetica globale», che pone la tutela della salute umana sullo stesso piano della tutela dell’ambiente, che per i cristiani corrisponde né più né meno all’ordine stesso della creazione.

A questa lettera, la Pontificia Accademia per la Vita dovrà rispondere, insiste il Papa, elaborando «argomentazioni e linguaggi che siano spendibili in un dialogo interculturale e interreligioso, oltre che interdisciplinare». Un compito arduo, ma esaltante e urgente di cui l’Accademia, e chi la guida, è perfettamente consapevole.