Agorà

La riscoperta. Giandante X, eroe dimenticato che visse d'arte

Massimiliano Castellani giovedì 10 febbraio 2022

Particolare di un'opera di Giandante X

Quanti piccoli grandi eroi dimenticati della storia del ’900 dobbiamo ancora approfondire, conoscere o riconoscere, come degni appartenenti a quella nobile schiera dei personaggi rari? Uno di questi, è sicuramente l’artista Dante Pescò, autentica rarità per i più, specie prima del libro di Roberto Farina, Giandante X (Milieu. Pagine 383. Euro 24.90).

Un lungo racconto su un talento dell’arte che già a vent’anni (negli anni ’20) si era messo in mostra e e fatto apprezzare, prima di celarsi dietro a un’esistenza misteriosa, terribilmente affascinante, quanto anarchica, su cui Farina ha fatto un lavoro ultradecennale di esegesi testimoniale preziosissimo, che ricorda molto quello di Pino Corrias su Luciano Bianciardi in Vita agra di un anarchico.

«Metà romanzo e metà saggio, questo libro di Roberto Farina è essenzialmente una lettera d’amore a un uomo reale che ai suoi occhi è stato quale un eroe», scrive in una prefazione cristallina, da fine conoscitore della materia, Giampiero Mughini. Una infatuazione da liceale quella dell’autore verso Giandante X, sfociata in una febbrile ricerca adulta del “genio perduto”. Quella del suo uomo del secolo, che trent’anni prima del leader della protesta afroamericana, Malcom X, al nome d’arte di “Viandante” – che per «refuso» divenne Giandante – aggiunse la fantomatica X: sinonimo di volontà di anonimato e di libertà di fuga. Giandante X il ribelle, pervaso ideologicamente dal comunismo anarchico che si ritrova anche nella sua cifra stilistica, che va dalla scultura alla pittura, fino al manifesto politico. «Circolare liberi dopo la grande lotta, ecco il bel umano sogno», scrive questo militante ignoto (autore anche di quatto libri di poesie praticamente introvabili) che era «piccolo di statura, volto intenso e profilato di chi è costantemente racchiuso in sè stesso», lo descrive Mughini, osservando i suoi cupi e insondabili autoritratti.

«Giandante è un mistero», confida il critico d’arte Raffaellino De Grada a Farina, il quale adotta la microstoria dell’artista come lanterna per illuminare le linee d’ombra della grande Storia ufficiale. Giandante X era artista riluttante a tutto, al mercato, ai critici e anche a se stesso, e per questo sceglie la via dell’oblio. Un Ettore Majorana vivente, almeno fino al 1984, quando è morto - di peritonite, soccorso per strada - dopo aver trascinato la sua esistenza al limite del clochard (veniva avvistato su una panchina della stazione di Cadorna a Milano) per 85 anni.

Ammirato da tutti quelli che lo avevano anche solo sfiorato, era amico del fascistissimo Mario Sironi, l’artista di regime, lui che invece con l’accusa di «cospiratore» era stato sbattuto in cella a San Vittore, nel 1923. Dieci anni dopo va nella Parigi che fino al ’20 era stata di Modigliani e sbarcando il lunario racimola il necessario per fuggire ancora. Arriva in una Barcellona dove andava in scena il tragico massacro fratricida tra franchisti e antifascisti. Il capo comunista Luigi Longo lo arruola come uomo della propaganda delle brigate internazionali, e i suoi volantini, come gli splendidi manifesti, non sono meno belli ed efficaci di quelli più colorati dell’Aidez Espagne del catalano Mirò. Dopo quella di Mussolini, rischiava l’ira funesta di Franco. Viene dato per morto in Italia, ma redivivo approda in Francia che lo accoglie stavolta in un campo di concentramento, fino al 1942, per poi essere estradato e confinato a Ustica e a Renicci-Anghiari.

Ma in mezzo a queste avventure alla Steve McQueen, c’è l’arte e la sofferenza scarnificante del dipingere e scolpire continuamente la propria anima, che è quella di un poeta maledetto e sfuggente, difficile da afferrare. Un genio compreso a pieno forse solo dallo scrittore Leonida Repaci e da un altro irregolare, semisconosciuto, l’artista Mirko Gualerzi che è stato il faro illuminante della recherche di Farina. Grazie a Gualerzi, l’autore va oltre Giandante, cambia registro e passa dal reportage di costume al romanzo, ridisegnando la mappa agiografica e sentimentale di una Milano che non esiste più, se non nei racconti degli ultimi testimoni. E questi in un serendipity rocambolesco, Farina, con mestiere di saggista e l’entusiasmo dell’eterno ginnasiale, riesce a scovarli, senza tregua. Bussa così alla porta di casa del partigiano Giovanni Pesce e sua moglie, la pasionaria Onorina Brambilla, che gli tratteggiano un Giandante X privato. In punta di piedi entra nel salotto del pittore Ernesto Treccani che, con l’ultimo refolo di vita, gli dona l’ermetica, e lieve confessione: «Giandante X... veloce passo... quando i Navigli... non erano ancora coperti».

L’eroe è randagio, e Farina ci ha messo sulla sua scia, ma per Giandante X valgono più che mai le parole di Max Aub: «E non si tratta di lasciar traccia, che è alla portata di chiunque, ma di continuare a essere se stessi dopo la morte».