Paolo Ruffini: «L'amore cura di tutti i mali»
L'attore e regista livornese da anni va in scena, sul piccolo e grande schermo affianco a persone con la sindrome di Down: «Ho scoperto che loro sono la forma scintillante della parola Dio»

«Il mio libro è pedagogico. Faccio podcast in cui intervisto i nonni per spiegare il fascismo ai nipoti che si proclamano fascisti, ma loro non sanno di cosa parlano» L’artista livornese attivo in tutti i campi, tv, cinema, teatro e narrativa ha scritto un romanzo, “Benito, Presente!” che è un po’ la metafora del suo impegno sociale Paolo il caldo. È stato animatore alla Fiorello e talento precoce in Ovosodo, film cult del concittadino Paolo Virzì. Poi, in ordine sparso: comico, attore, regista tetrale e cinematografico (ultimo film diretto Ragazzaccio, storia di un 15enne durante la pandemia), produttore, scrittore e operatore sociale. In ogni campo agisce in completa autarchia e da eterno ragazzo ribelle. «Da bambino sono andato a scuola dalle suore e come il Paul Newmann di Nick mano Fredda mi ripetevano: “Paolo mettiti in riga”. Non ci sono mai riuscito, al massimo a volte provo ad andare o sopra o sotto la riga. Comunque nei miei tanti lavori faccio tutto da solo e come si dice da noi a Livorno: meglio chiedere scusa che permesso » Questo è Paolo Ruffini da Livorno, classe 1978. Dieci anni esatti dopo Odio ergo sum, studio semiserio del fenomeno degli hater, torna in libreria con un romanzo storico-satirico che sa di provocazione già dal titolo, Benito, Presente! (Baldini+Castoldi). Romanzo che narra le vicende scolastiche e la passionaccia politica di un prof. dei nostri giorni, il comunistissimo Edoardo Meucci. Un prof. troppo ideologico e dai modi bruschi e per questo declassato, da un liceo di Milano alle elementari di Predappio, il paese natale del Duce. E qui avviene l’incontro surreale, un ritorno al passato stile Non ci resta che piangere con Benito Mussolini bambino. Un incontro choc in cui il prof. Meucci catapultato nell’anno scolastico 1890, si trova di fronte a un bivio coscienziale: o lo uccido e così impedisco la nascita del fascismo o lo educo.
Ruffini, senza spoilerare troppo la trama, ma la soluzione al dubbio meucciano qual è?
«La terza via, che è sempre quella dell’amore. Il mio non è un romanzo politico e forse neanche provocatorio, titolo a parte, ma pedagogico. Ovvio che le mie idee sono quelle del ragazzo ribelle che si è formate sui banchi del Liceo Classico Guerrazzi di Livorno. Lì di prof. Meucci ce n’erano parecchi e come lui erano dei comunisti arrabbiati che poi però negli atteggiamenti duri e autoritari si trasformavano in fascisti. Un po’ come quelli di adesso che si autoproclamano di sinistra e che per paradosso ti minacciano dicendoti: “Devi essere pacifista sennò ti ammazzo”. Siamo alla follia».
Lo spettro folle del “Duce bambino” è una grande trovata scenica.
«Mussolini va molto di moda nel nostro Paese, l’anno scorso secondo il quotidiano Libero è stato l’uomo dell’anno. Io però in Benito, Presente! lo uso come archetipo da fiaba, come fosse Pinocchio. I giovani d’oggi che si proclamano fascisti non sanno neppure cosa sia stato il fascismo. Io provo a spiegarglielo anche con le interviste che faccio nel mio podcast Il badante in cui do voce agli anziani che hanno vissuto sulla loro pelle i mali del regime. Il fascismo all’epoca ha avuto buon gioco anche grazie a un Paese, che diciamocelo, era un po’ ignorantello. Nonni nonne mi commuovono quando raccontano che “il pane era un lusso e mi nutrivo solo a sentirne l’odore”. O la signora che mi dice: “Ho visto uccidere 16 persone e uno era mio fratello”, oppure l’altra che si sogna ancora “il pilota dell’aereo che con il mitragliatore stava per uccidermi… ho incrociato il suo sguardo e per pietà vedendo che ero una bambina mi ha risparmiata”. Da queste storie mi convinco che il contrario di guerra non è solo pace, ma anche e soprattutto cultura».
La morale di Benito, Presente! ci dice che è l’amore e non la politica a salvare l’uomo.
«L’amore è una scelta politica, ed è la più importante, perché la politica dovrebbe prima di tutto occuparsi del benessere dei cittadini, a cominciare dai più deboli. I bambini se andassero a votare farebbero scelte migliori di noi grandi. Poi crescendo incontro ragazzi confusi che non vivono più l’educazione e la scuola come una virtù e una risorsa. Sono più ricchi dei loro genitori e non hanno una percezione dell’indigenza e per questo sono spaesati e sempre più preda di disturbi psichici di tutti i tipi. Ma le colpe e i sensi di colpa che gli abbiamo generato arrivano da noi, dagli adulti».
Colpa di un mondo sempre più virtuale?
«Come scrivo in Benito, Presente! il web è stata la più grande scoperta dell’umanità ma i ragazzi ne abusano liberamente, senza più dover fare domande ai padri e ai maestri. Mentre noi proviamo ad educarli a saper stare dentro un mondo reale, loro si rifugiano sempre più in quel microcosmo virtuale che si sono costruiti nella cameretta, e da lì dentro spesso non hanno nessuna intenzione di uscire fuori».
Ruffini invece è riuscito a portare fuori, in scena e sugli schermi tanti ragazzi con la sindrome di Down. Come nasce questo legame?
«È stato grazie al pedagogista e regista Lamberto Giannini, fondatore della Compagnia teatrale Mayor Von Frinzius che a Livorno da anni lavorava con il teatro facendo recitare persone con la sindrome di Down. Vedendoli all’opera mi sono entusiasmato e gli ho proposto: proviamo a scardinare questo circuito ristretto e portiamoli nei circuiti più ampi e commerciali che bazzico da sempre. È un percorso che ha fatto bene a loro e a me è servito tantissimo per entrare e conoscere un mondo nuovo. Prima di tutto a capire che come in natura non trovi un fiore o un pomodoro normale, così anche tra gli esseri umani si deve andare oltre il concetto di diversità. L’universo Down è un’ aurora boreale dentro alla quale vivono gli esseri più pacifisti, loro sono i veri credenti. Oltre che all’esistenza di Dio loro crederanno per sempre a quella di Babbo Natale».
“Alla ricerca di (D)Io” è il sottotitolo del vostro spettacolo teatrale Din Don Down.
« La parola Dio non ha una grammatica, non ha un giusto o uno sbagliato e le persone Down sono la forma scintillante della parola di Dio. Con questo spettacolo puntiamo a dare il messaggio che mi ha insegnato don Francesco del Monastero di San Magno che un giorno mi ha detto: “Ama il prossimo tuo perché è te stesso”. Pensavo che il mondo ecclesiastico accogliesse Din Don Down con un po’ di reticenza e invece anche l’altra sera delle suore sono salite sul palco a ballare con i ragazzi assieme al nostro “Papa”, interpretato da Andrea Lo Schiavo: si fa chiamare Papa Ugo, perché per lui Francesco è troppo difficile da pronunciare… Finora abbiamo visto solo soldout e standing ovation: il pubblico alla fine dello spettacolo ride divertito con i lucciconi agli occhi».
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