Ridiamo in 18 modi, ma solo uno è questione di puro divertimento

La scienziata di Zurigo Mirella Manfredi mostra i risvolti evolutivi, fisici, chimici, neuronali e sociali di un fenomeno articolato e complesso. Che tocca il benessere e che non riguarda solo l'uomo
September 3, 2025
Ridiamo in 18 modi, ma solo uno è questione di puro divertimento
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Ridere è un comportamento umano ricorrente. Lo si fa talvolta con un semplice sorriso, ma più spesso con una risata fragorosa, esagerata, addirittura sguaiata. Perché ridiamo? Come nasce e si sviluppa il senso dell’umorismo?
Lo spiegano alcune ricerche scientifiche e due recenti libri. Fausto Caruana, neuroscienziato studioso del cervello, ed Elisabetta Pelagi, etologa esploratrice del comportamento, nel loro volume Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (Il Mulino, 2024), analizzano le ragioni che hanno portato psicologi, antropologi e filosofi a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Le teorie che per secoli hanno cercato di spiegare il senso del ridere sono oggi ritenute inconsistenti, anche se hanno condizionato nel tempo le osservazioni attorno a questo comportamento umano. Filosofi del calibro di Platone e Hobbes hanno sostenuto che la risata nascesse per il senso di superiorità di fronte a una situazione particolare o come conseguenza di un “rilascio di energia” dopo un momento di forte tensione emotiva. Ipotesi insufficienti a giustificare la complessità di un comportamento (la risata) che implica importanti coinvolgimenti cognitivi (l’humour e l’umorismo), attiva diversi meccanismi neurofisiologici (reti neuronali dell’emozione e della memoria) e favorisce il rilascio a livello cerebrale di serotonina e di dopamina (neuromediatori della felicità), di endorfine (neuromediatori del piacere) e di ossitocina (neuromediatore della socialità).
Lo spiega, con un linguaggio semplice, ma che non rinuncia al rigore scientifico, Mirella Manfredi, docente di Neurodiversità e cognizione dell’università di Zurigo, nel libro Il cervello che ride. Neuroscienze dell’umorismo (Carocci, pagine 112, euro 13,00). Il passaggio dal sorriso alla risata è un processo più articolato e complesso. «La prima espressione di divertimento negli esseri umani – scrive la scienziata – compare entro le prime cinque settimane di vita. È il cosiddetto “sorriso sociale”, ovvero quel sorriso intenzionalmente rivolto verso qualcuno. La risata, invece, emergerà solo intorno al quarto mese di vita. Negli adulti invece non esiste un solo tipo di sorriso: ne sono stati identificati ben 18 tipi diversi! Eppure, solo uno all’interno di questa varietà sarebbe collegato in modo inequivocabile al divertimento puro». Accanto a questo “vero”, che comporta anatomicamente l’attivazione del muscolo zigomatico maggiore, il sollevamento obliquo degli angoli della bocca e la sollecitazione del muscolo orbicolare dell’occhio, ne sono stati osservati altri, “forzati” o “falsi”, solitamente legati a emozioni negative come l’imbarazzo e l’ansia, che non comportano questo tipo di risposte fisiologiche.
Ridere è dunque una questione complessa, che coinvolge anche tutto il resto del corpo. “Morire dal ridere” non è solo un modo di dire. Una risata vera e genuina determina una sensazione di debolezza muscolare generalizzata, una maggiore sudorazione diffusa e una respirazione più accelerata. In casi estremi anche una transitoria incontinenza urinaria. Sul piano comportamentale molti episodi di risata, più che essere espressione di vero divertimento, svolgono una funzione sociale e comunicativa. Servono a gratificare il comportamento degli altri, a rafforzare l’interazione tra soggetti, ad alleviare la tensione nei rapporti interpersonali, a far rispettare le relazioni gerarchiche. Svolgono quindi un’azione positiva a livello sociale oltre che individuale. Esistono però anche situazioni in cui la risata è involontaria o inappropriata: eccessiva, non provocata o fuori contesto. Una risata cioè “patologica”, tale per malattie neurologiche (come nella sindrome pseudobulbare o nell’epilessia gestaltica) o disturbi psichici (come nella schizofrenia e nei disturbi dell’umore), che può influire negativamente sulla qualità di vita, sul benessere psicologico e sui rapporti sociali. «Lo stigma sociale associato alla risata incontrollata – precisa Manfredi – può esacerbare i sentimenti di vergogna, isolamento e angoscia, perpetuando il ciclo di espressione patologica. Pertanto, il riconoscimento e l’intervento precoce sono fondamentali per mitigare gli effetti negativi della risata patologica».
Dal punto di vista evolutivo quale può essere stato il vantaggio legato alla nascita dell’umorismo per la sopravvivenza della specie? La risata si può considerare una “colla sociale” e come tale la sua funzione primaria appare quella di creare e rafforzare i legami all’interno di una comunità, salvaguardando in tal modo l’incolumità dei suoi membri e proteggendoli dal rischio di una morte precoce legata a possibili conflitti interindividuali. L’etologia ha confermato questa chiave interpretativa, permettendo di scoprire e di documentare che la risata non può più essere considerata solo una prerogativa umana. Sia pure con modalità differenti, ridono, a modo loro, gli altri primati, le iene, i cani, i leoni marini e molti altri animali. «Nelle diverse specie di animali – scrivono in proposito Fausta Caruana ed Elisabetta Pelagi – la risata può esprimersi attraverso molteplici varianti che si esplicano con una serie di attivazioni muscolari aggiuntive, rispetto a quelle dell’uomo». Ridono per segnalare le loro intenzioni pacifiche e mitigare il rischio di conflitti, ma anche per manifestare il gusto e il piacere che provano per alcune azioni (come alcune scimmie, che ridono fragorosamente quando si lanciano nel vuoto o si dondolano con l’altalena). Il riso è dunque un comportamento animale complesso, che assolve sia funzioni sociali attraverso interazioni cooperative, sia atteggiamenti ludici che gratificano chi li mette in atto.
Oggi le neuroscienze forniscono una spiegazione esaustiva del fenomeno e dimostrano che i correlati neuronali della risata e dell’umorismo risiedono in antiche strutture del nostro cervello che condividiamo con altre specie non umane. Non esiste una sola area cerebrale correlata con la risata. Esiste una rete neurale dell’umorismo che include le aree motorie, premotorie e motorie supplementari del lobo parietale, l’opercolo, il giro superiore e la corteccia cingolata anteriore del lobo frontale, il giro temporale superiore e altre strutture profonde del lobo temporale, l’amigdala e l’insula. Questa rete non solo è responsabile degli aspetti espressivi della risata, ma è in grado di modulare anche le attività emotive, positive o negative, che spiegano perché l’umorismo riesca a influenzare stati d’animo complessi, come la contentezza e la gioia, oppure come la tristezza e la rabbia.
Ridere fa dunque bene alla salute? Sembrerebbe ormai un fatto assodato dalla scienza. L’umorismo influisce positivamente sul nostro benessere, regolarizzando le funzioni fisiologiche cardiovascolari, diminuendo ansia e stress, migliorando l’umore, favorendo le prestazioni cognitive. La risata si rivela dunque un comportamento molto antico, utile e universale, un elemento fondamentale di ciò che ha permesso il successo evolutivo di tante specie, compresa quella umana: la socialità.

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