giovedì 19 gennaio 2017
Vent’anni fa moriva il “Gordo” argentino, il più grande narratore di calcio. Come papa Francesco tifava San Lorenzo. Scampò al regime di Videla e da noi lo rese celebre l’amico Arpino
Osvaldo Soriano

Osvaldo Soriano

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Estate italiana 1990: seduto alla sua macchina da scrivere, “El Gordo” vergava: «Partito Menem, lo jettatore, è comparsa la mano di Dio. In Messico il Signore scese sul campo per segnare un gol con il suo pugno benedetto; a Napoli invece, spaventato dalla mediocrità degli argentini che accompagnano Maradona, Dio è sceso dal trono ed al tredicesimo fatidico minuto ha fermato il pallone con un braccio sulla linea che separa il cielo dall’inferno». Così parlava, anzi scriveva (sulle colonne del “Manifesto”), Osvaldo Soriano, osservatore speciale della sua Argentina al Mondiale di Italia ’90. Rileggersi le sue cronache calcistiche, specie di quelle «notti magiche / inseguendo un gol», è un modo per mitigare il vuoto dell’assenza che nel caso del magnifico “Gordo” è davvero «più acuta presenza».

Il più onirico e romantico dei giornalisti sportivi (nel suo caso, titolo quanto mai riduttivo) se ne andava a 54 anni appena compiuti il 29 gennaio 1997. Perdonatemi se potete, ma parlare di Soriano per lo scrivente è come descrivere il proprio padre; il mio, Mario, è un classe 1946, l’Osvaldo era del 1944. Lo sento (e siamo in tanti) talmente vicino che anni fa ho scritto forse il mio libro più autentico, e fin dal titolo un chiaro omaggio al redivivo (entrava in scena in compagnia del suo gatto Nigro) ed eterno Soriano, Continuano a pensare con i piedi (Sugarco). Il suo Pensare con i piedi è diventata espressione gergale popolare, così come quel Triste solitario y final pubblicato in Argentina nel 1973 grazie alle Ediciones Corregidor, e giunto, quasi piratescamente, sino a noi nel 1974 nell’edizione Vallecchi.


Ma lì, dentro a quel volume, più che il Fútbol c’erano le altre sue grandi passioni: il cinema e la letteratura. I polizieschi di Chandler, i racconti esilaranti come quello sulla tomba del comico Stan Laurel: Stanlio, il “gemello” di Ollio, Oliver Hardy . E più dell’altro narratore di splendori e miserie del calcio, l’uruguagio Eduardo Galeano, o del nostro ruzantesco Joan PadanGianni Brera, Soriano ha insegnato alla nostra generazione che si può essere ottimi giornalisti sportivi senza per questo rinunciare all’affondo poetico e letterario. Una cifra stilistica rara che per primo da noi aveva intercettato un altro grandissimo irregolare della narrativa, Giovanni Arpino. Scusandosi «per il ritardo» Arpino recensì sulla “Stampa” il 29 novembre 1974 Triste solitario y final. «È da giugno che il libro si trova (o dovrebbe trovarsi) negli scaffali degli “economici”. Ma non ho letto un rigo su questa storia eccezio- nale, veloce come un fumetto, esilarante, virilistica e amara. Soriano, giornalista sportivo e scrittore privo di tracce ereditarie, forse non riuscirà a ripetersi. Ma certo, nel filone eroico o elegiaco o di denuncia sudamericano, lui rappresenta il lato ariostesco: indispensabile pimento della vita». Da quel momento, grazie all’assist sincero e partecipato del “fratello italiano” Arp, tra i due cominciò uno scambio epistolare.

Soriano adorava l’amico e autore di romanzi che lo stregarono, tutti, da La suora giovanealBuio e il miele( assurto al successo internazionale nella versione cinematografica di Profumo di donna di Dino Risi). «Querido Giovanni, nel leggerti, sento che i miei personaggi sono di una banalità che sfiora la stupidità. Lo stesso mi capita di fronte a Fitzgerald a Nathanael West o a Caldwell», rispondeva l’argentino in una delle diciassette lettere raccolte nel bellissimo e prezioso saggio di Massimo NovelliBracconieri di storieappena ripubblicato da Spoon River Graphot. Erano lettere dall’esilio quelle che inviava il “Gordo”, che per sfuggire al regime di Videla riparò in Belgio e poi a Parigi dove visse in avenue Palmerstone, nella casa dei vitreaux in cui aveva abitato Victor Hugo. Con Arpino, Soriano aveva condiviso anche la passione per il calcio. Erano stati insieme allo stadio, si erano scambiati opinioni e confidati sulla loro “fede”. Il “Gordo” era un cuervonell’anima, innamorato della stessa squadra di papa Francesco, il San Lorenzo de Almagro. Arpino si professava juventino ma era al contempo affascinato dal mito del Grande Torino. Per questo Osvaldo, in una lettera del 1979, gli suggeriva di segnalare ai dirigenti granata quel fenomeno dell’Argentino Juniors, il 19enne Diego Armando Maradona, che a 5 milioni di dollari se lo sarebbe potuto permettere anche il Toro.

La futura “Mano de Dios”, l’“Eupalla” breriano, poi sarebbe diventato l’icona di Napoli. Quella Napoli in cui Soriano andò, ma senza Arpino – era morto nel dicembre del 1987 – a seguire l’Argentina e annotò divertito la sceneggiata meroliana di una città, un popolo intero, che si schierò a favore del suo idolo e contro la propria patria pallonara, gli azzurri di Azeglio Vicini, eliminati ai rigori. Poi Soriano scrisse l’atto finale dell’Olimpico: la resa dei conti dell’Argentina con la Germania che per 90 minuti rivisse l’alleanza con gli italiani. «Marco forte, Diego provocatore e antipatico, italiani frustrati e tristi. Sognate feste di consolazione a Buenos Aires. Allegrie di cartapesta a Yaoundé. Simpatici africani del Camerun, i potenti vi applaudono: poveri voi», chiosò Soriano dopo l’ingiusta sconfitta mondiale dell’Argentina. In quella notte romana iniziò la caduta libera de “El Diego”, mentre il “Gordo” entrava da punta di diamante nella squadra dell’Einaudi con un libro splendido fin dall’intitolazione, Un’ombra ben presto sarai. Continuò ancora per un settennale a faticare di “stile e stiletto” (Bruno Quaranta ci conceda il prestito) sui tasti della macchina da scrivere, giocando a tutto campo, tra saggi, libri e articoli di giornale che catturarono l’attenzione di Italo Calvino. Uno dei tanti tifosi del più grande “poeta del gol” – alla stregua di Pasolini – per la capacità di mostrare al grande pubblico che nel microcosmo di un campo di fútbol si possono rintracciare le orme diPirati, fantasmi e dinosauri o di Ribelli, sognatori e fuggitivi. Altro titolo, questo, che compie trent’anni, ma che a rileggerlo sembra scritto un istante fa, mentre Soriano si accende una sigaretta, accarezza quel-l’ispiratore peloso del gatto Nigro, per poi riprendere il filo del suo fantastico discorso.

Un discorso purtroppo parzialmente interrotto da una maggioranza rumorosa che ha reso il calcio una scienza esatta o ancora peggio un caleidoscopio di banalità retoriche e un mondo popolato dal becero giornalismo urlato e tifoso. Per guarire da questa peste bisognerebbe avere l’umiltà di andarsi a rileggere le sue opere, magari partendo dalle Storie di calcio per poi passare ai romanzi. Un passaggio impercettibile, come notava un altro suo grande tifoso e altro principe degli irregolari, Nico Orengo: «I romanzi di Soriano riproducono la struttura di una partita di calcio, con un primo e un secondo tempo. Nella prima parte dei suoi libri mette in campo i personaggi che studiano l’avversario, nella seconda parte i personaggi vanno in profondità». Profondità dell’Osvaldo che, da una tribuna di uno stadio molto in alto, continua a ricordarci di come sia «terribile l’indifferenza. Ci restano amicizie fugaci, piccoli momenti d’amore, essere vivi malgrado tutto. Ma bisogna anche vivere con dignità».

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