martedì 6 aprile 2021
Esce il trentennale carteggio con l'Arcivescovo di Milano e diventa la cronaca di un’amicizia nella quale lo studio della Bibbia si intreccia anche con il capolavoro di Lewis Carroll
Il cardinale Carlo Maria Martini nel 2002, ultimo anno del suo episcopato a Milano

Il cardinale Carlo Maria Martini nel 2002, ultimo anno del suo episcopato a Milano - .

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L’arcivescovo non aveva mai letto Lewis Carroll, la giornalista di Repubblica era convinta che la Bibbia fosse un testo da consultare ogni tanto, giusto per verificare l’esattezza della citazione fatta da qualcun altro. È andata a finire che lei, Silvia Giacomoni, si è talmente appassionata alle Scritture da fornire una sua trascrizione dell’Antico Testamento nella Nuova Bibbia Salani (2004) e del primo dei Sinottici in Dice Matteo (2007). Quanto a lui, Carlo Maria Martini, era arrivato ad apprezzare così tanto Alice dal paese delle meraviglie da servirsene come spunto per un intervento sul ruolo dei cristiani nella società: abbiamo tutti gli strumenti di cui avremmo bisogno, diceva il cardinale, solo che non sappiamo come servircene, proprio come Alice alle prese con quella porticina minuscola dalla quale non riesce a passare. I libri di Carroll, così come i testi di una biblioteca essenziale di letteratura milanese (Carlo Porta e Delio Tessa, Beccaria, i Verri, Carlo Cattaneo, perfino il teatro di Carlo Maria Maggi), sono solo alcuni dei tanti “regali di non compleanno” inviati da Giacomoni a Martini, in un rapporto sempre più stretto di collaborazione e confidenza destinato a sfociare nell’amicizia di cui ora danno conto le lettere raccolte in Diavolo d’un cardinale (Bompiani, pagine 350, euro 20,00).

Un disegno per 'Alice nel paese delle meraviglie'

Un disegno per "Alice nel paese delle meraviglie" - .

Il titolo è assai meno irriverente di quanto potrebbe apparire, se non altro perché riproduce un’esclamazione scherzosamente ammirata che la stessa Giacomoni non esita a mettere nero su bianco in uno dei tanti passaggi di una corrispondenza ricchissima di spunti, sia sul versante storico e culturale, sia su quello spirituale e religioso. Frequentatrice assidua delle conferenze stampa e delle numerose iniziative di quell’arcivescovo che le era subito sembrato «un professore di Oxford», Silvia Giacomoni ha maturato attraverso la testimonianza di Martini una conversione per molti aspetti imprevista e sempre vissuta con irripetibile spigliatezza. “La Giacomoni”, come sarebbe giusto chiamarla alla maniera meneghina (quando si riferisce al marito, del resto, lei stessa non dice “Giorgio”, ma “il Bocca”), è rimasta fedele alle proprie origini di illuminista lombarda, dalle quali discende una sensibilità che, non fosse altro che per il tramite di Manzoni, non esclude mai del tutto l’eventualità dell’invisibile.

È lo stesso intreccio di avventura intellettuale e di introspezione orante che ritroviamo, per esempio, nella sua lettera dell’8 ottobre 1992. «Credo di avere capito che cosa vuole da me il Signore – scrive in quell’occasione Giacomoni –. Credo che voglia che io impari a conoscerlo leggendo la Bibbia, meditando e pregando come insegna il suo servo Carlo Maria Martini». Diavolo d’un cardinale è un libro generoso di sorprese. Copre un trentennio esatto, dal 1982, quando Martini regge l’arcidiocesi di Milano da un paio di anni, al 2012, quando il cardinale muore all’Aloisianum di Gallarate, pochi mesi dopo aver mandato all’amica un messaggio che, nella sua stringatezza, ha la solennità di un congedo: «Un amen può esser tale per me…».

Silvia Giacomoni

Silvia Giacomoni - / Letizia Mantero

Gli esordi del carteggio sono abbastanza burrascosi: irritata da un’affermazione di Martini, che si è pronunciato a favore della proposta di riconoscere uno stipendio alle casalinghe, Giacomoni gli riserva una contestazione abbastanza battagliera («Gli anni di convivenza o di fidanzamento sarebbero “assorbibili” ai fini della pensione?»), che però non dev’essere male accolta, se è vero che da lì a qualche tempo il cardinale comincia a chiedere il parere della giornalista sui temi della società, della condizione femminile, della famiglia, della comunicazione, di una possibile nuova relazione tra la Chiesa e la cultura contemporanea. Sono gli anni della Cattedra dei non credenti e delle letture bibliche organizzate da Giacomoni all’Università Statale insieme con l’ebraista Paolo De Benedetti e con suor Germana Iannaccone, che di Martini fu una delle collaboratrici più assidue e riservate.

Ma sono anche gli anni che preparano e accompagnano la tempesta di Tangentopoli, nella cui volontà di rinnovamento e di moralizzazione si mettono in discussione anche le istanze del colto eclettismo filantropico caratteristico della tradizionale borghesia milanese. Di tutto questo, oltre che della vicenda solo in parte privata alla quale alludono gli scambi tra i due corrispondenti, Diavolo d’un cardinale riferisce con immediatezza immutata, anche grazie alla sapiente curatela redazionale della scrittrice Laura Bosio. In nota a molte delle lettere, infatti, sono riprodotti articoli e documenti dell’epoca, compresa la lunga intervista a Martini raccolta da Giacomoni per Micromega nel 1991, in un momento nel quale il cardinale non escludeva di ritirarsi a Gerusalemme per dedicarsi allo studio e alla meditazione. Il libro offre un ritratto di Martini, senza dubbio, ed è un Martini che, messo a confronto con l’autoritratto di Giacomoni, risulta più familiare e ironico di quanto solitamente si ritenga.

Basti pensare al percorso disegnato dalle qualifiche di volta in volta scelte per rivolgersi al prelato, dall’estemporaneo «Eccellenza» al raro e formale «Eminenza», passando per la lunga stagione del «monsignore» (del quale viene rivendicata la correttezza filologica) e del «caro cardinale» per approdare infine all’essenziale «padre Martini». L’interessato segue questa evoluzione senza commentare, forse con un pizzico di divertimento. Che abbia un gran senso dell’umorismo lo ribadisce, tra l’altro, il memorabile botta e risposta scaturito nel 1989 da una provocazione dell’irrequieta cronista: per i teologi cambierebbe qualcosa se si decidesse che a essere ispirata da Dio è l’opera di Shakespeare e non la Bibbia? «Non mi fa problema il fatto che si possa fare una esegesi profonda di Shakespeare come della Bibbia – replica pacato Martini –. Se un autore è profondo, lo si penetra fin che si riesce. E la Bibbia ha un autore molto profondo».

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