lunedì 8 aprile 2024
«Va compreso che l’alternativa identità/mediazione è falsa riguardo al nostro credere, in quanto la nostra identità consiste nella mediazione. Però accoglienza non deve significare omologazione»
Il teologo Giuseppe Lorizio

Il teologo Giuseppe Lorizio - Agenzia Romano Siciliani

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All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, il cardinale gesuita Jean Danielou pubblicava un pamphlet che mi fece da viatico mentre muovevo i primi passi negli studi teologici, si intitolava La cultura tradita dagli intellettuali (Rusconi, Milano 1974). Le cause del tradimento venivano individuate in tre aspetti di quella che l’Autore riteneva fosse la “cultura dominante”, ovvero lo scientismo positivista, il soggettivismo individualista e lo storicismo immanentista. Se da un lato la possibilità di uscire dal tunnel veniva intravista in un recupero della metafisica, tanto bistrattata anche fra i credenti, con grande disappunto di Danielou, dall’altro egli denunciava la superficialità del modo di vedere e pensare dei cristiani del suo tempo. Facilmente immaginabile cosa direbbe di noi cinquant’anni dopo. La questione di quello che definisce l’affievolimento della fede consiste anche nella mancanza di consapevolezza del suo essere «vitale per la civiltà: noi non siamo responsabili soltanto della salvezza eterna. Noi siamo responsabili anche della città terrena, perché attraverso la città terrena si costruirà la vocazione eterna».

Il Novecento postbellico ha visto affermarsi a livello direi globale quella “cultura della deterrenza”, di cui, qualora fosse finalizzata alla pace, stiamo sperimentando il fallimento con l’irrompere dei conflitti armati da un lato e i fenomeni migratori dall’altro. A sostenere la prospettiva culturale deterrente giunge anche la serie televisiva, ispirata alla trilogia dello scrittore cinese Cixin Liu, Il problema dei tre corpi (Mondadori, Milano 2017), pubblicizzata nelle stazioni ferroviarie con la scritta “Siete insetti”. Il testo si apre con un monito: «Se uccidervi servisse a risolvere il problema, vi ucciderebbero tutti. Ma la loro tecnica più valida resta ottenebrare le vostre menti». Si tratta della versione fantascientifica della deterrenza, che costituirebbe la soluzione del paradosso di Enrico Fermi, che sembra si chiedesse: data la grande quantità di sistemi stellari che induce a ritenere probabile la presenza di altre esistenze intelligenti nel cosmo, come mai tutto questo silenzio? Si tratterebbe appunto del silenzio che precede lo scontro, sicché gli alieni non vengono più visti come possibili amichevoli interlocutori, ma come nemici. L’atteggiamento deterrente viene ben descritto nell’opera in questi termini: «I veri combattimenti di spade giapponesi finivano spesso dopo un breve scambio di fendenti, che non durava più di uno o due secondi […]. Ma prima di quel momento, gli avversari si fissavano come statue, talvolta per un tempo che superava i dieci minuti. Durante la sfida, lo spadaccino non brandiva l’arma con le mani, ma con il cuore. La spada interiore, trasformata in sguardo attraverso gli occhi, infilzava il nemico nel profondo della sua anima».

Se la deterrenza è ciò che inevitabilmente conduce allo scontro armato, la teologia e l’esegesi sono chiamate a rispondere alla domanda: il detto di Gesù che invita a riporre la spada nel fodero (cf Mt 26, 52) vale solo per l’etica individuale o dovrà anche riguardare le scelte degli Stati e la geopolitica? Sarà pur vero che le scelte delle società passano attraverso quelle delle persone, che vanno disarmate della loro spada interiore, ma il compito eminentemente culturale in primo luogo, quindi politico, dei credenti è quello di contrapporre alla cultura della deterrenza una cultura dell’accoglienza e della convivenza. La Chiesa italiana è particolarmente impegnata su questi fronti a tutti i livelli e la sua azione non mi sembra irrilevante, piuttosto sarebbe minoritaria in termini politico-elettoralistici, ma a tal proposito ci sarebbe da affrontare la problematica della rappresentanza. Ciò che mi sembra irrilevante, in senso etimologico, cioè privo di visibilità, è il fatto che non si mostra, in modo che venga chiaramente percepita, la valenza culturale di tale agire ecclesiale e così resta nell’ombra anche la sua profonda motivazione teologica, che sgorga dalla fede. Pertanto, l’annuncio non può essere ritenuto alternativo rispetto alla presenza e viceversa.

Se da un lato “la grazia suppone la cultura”, come recita l’Evangelii Gaudium (n. 115), essa non può non esprimersi in una “cultura dell’incontro” (Fratelli tutti, 216). In una suggestiva disanima della situazione contemporanea rispetto alla post-colonizzazione, attestata nel suo libro dal titolo Brutalismo (Il portico, Bologna 2023), Achille Mbembe sostiene che quella che abbiamo sopra denominato deterrenza, si esprime nel fatto che «La Terra non appartiene più a tutti e, allo stesso tempo, non c’è quasi nessuna “casa propria” a cui tornare. Tutto si riduce al calcolo». Se non vuole condannarsi all’irrilevanza la presenza della comunità cristiana dovrà sostentare il proprio impegno, per il quale impiega notevoli energie umane ed economiche, con il mostrarne la valenza culturale e il radicamento credente. E questo anche perché la necessità dell’accoglienza non viene da noi motivata solo in termini funzionali nel senso che gli immigrati sostengono la nostra economia e, presenti nelle nostre scuole, in molti casi ne impediscono la chiusura, ma è in gioco il ruolo fondamentale della visione antropologica che il Cristianesimo ha consegnato all’umanità, ossia la centralità della “persona” rispetto al diritto e alla stessa società. Siamo convinti che il documento di prossima pubblicazione sulla dignità umana offrirà notevoli spunti proprio su questo tema.

Concludendo: in primo luogo va compreso che l’alternativa identità/mediazione è falsa riguardo al nostro credere, in quanto la nostra identità consiste nella mediazione, essendo discepoli dell’unico mediatore fra cielo e terra, fra persone e culture, fra nord e sud, est ed ovest. Non a caso nell’organizzazione dell’accoglienza la figura del mediatore culturale dovrà sempre più risultare centrale. E questo anche perché, in secondo luogo, l’accoglienza non può in alcun modo significare omologazione e assimilazione. In tal senso il termine “inclusione” potrebbe risultare equivoco. In ogni identità religiosa e culturale vi è qualcosa di irrinunziabile e indisponibile, come in ogni persona e per questo ogni disponibilità accogliente dovrà iniziare dall’assoluto rispetto dell’alterità personale e comunitaria di coloro che vengono ospitati, col tentativo di comprenderne il senso e nella consapevolezza che nell’intercultura non funziona la logica binaria del vero/falso, ma quella dei “semi del Verbo” presenti in ogni appartenenza autentica.

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